Siamo solo all’inizio! Alcune riflessioni verso (e oltre) lo sciopero generale del 12

Stavolta saremo lunghi. Ma c’è bisogno di ragionare insieme, di dire bene le cose. Siamo infatti a un passaggio cruciale di quest’autunno: cruciale per il Governo Renzi, ma anche per noi. Un passaggio che merita, dunque, tutti i nostri sforzi di comprensione e di azione.

Perché il nostro obbiettivo, come sempre, non è quello di agitarci un po’ per portare qualche (magrissimo) risultato al nostro sindacato, partitino o gruppetto, ma – vale sempre la pena ricordarlo! – vincere. O, se oggi non riesce a vincere, porre le basi, attraverso la lotta, per vincere domani. Bisogna dunque comprendere a fondo questo momento, per sviluppare l’azione più incisivamente possibile e produrre un avanzamento complessivo.

Siamo a un passaggio cruciale, dicevamo. È infatti evidente che il Governo ha puntato tantissimo sul Jobs Act, che ha rappresentato il suo primo e più importante provvedimento (già dal Decreto Poletti), e forse perfino il motivo per cui Renzi è stato messo lì. La centralità della riforma del lavoro nell’operato di questo Governo non è un’invenzione di qualche sindacalista rimasto al Novecento: ci è restituita da ogni TG degli ultimi mesi, dai continui interventi di politici ed economisti sui giornali, dalla stessa crisi capitalistica e dai tentativi alquanto maldestri per “uscirne”.

Questa centralità del Jobs Act, così come la forza dell’attacco, è stata perfettamente compresa dalla nostra classe. Anche se questa riforma del lavoro è in piena continuità con le politiche dei precedenti governi (si pensi ad esempio alla riforma Fornero), l’arroganza di Renzi, i suoi abbracci con Confindustria, hanno rappresentato la classica goccia che fa traboccare il vaso. E così hanno scatenato, nonostante quegli 80 euro che ad aprile erano stati pensati proprio per “tenerla buona”, la reazione di una componente importante del mondo del lavoro, che magari non si vede spesso negli ambiti di “movimento”, ma che è numericamente consistente e inserita nei luoghi strategici della produzione della ricchezza: in primis nelle fabbriche.

Che piaccia o no – ma a chi vuole cambiare il mondo non può non piacere! – questo è il dato che emerge con più forza da quest’autunno, l’elemento di novità, che ha prodotto qualcosa che in sei anni di crisi non si era ancora dato: una significativa mobilitazione del lavoro dipendente. Quel mondo che secondo tutti gli indici statistici arretra da oltre venti anni, che ha pagato più di tutti questi anni di crisi, che è stato costretto a enormi sacrifici e che – pur maturando una profonda ostilità verso i governanti, manifestata in parte con il voto ai 5 Stelle, in parte con l’astensione – non aveva ancora prodotto reazioni significative. Ecco, ora arrivano i nostri, o almeno quella parte dei nostri di solito invisibile, meno conosciuta e considerata dalla galassia della “sinistra”.

Nessuna insurrezione, per carità, ma certo qualcosa di sorprendente per chi frequenta quel mondo. Assemblee sindacali partecipate, scioperi spontanei, un’ondata di indignazione collettiva per le manganellate agli operai di Terni, insomma: una generale fibrillazione, un’embrionale coscienza, che è arrivata a lambire anche realtà lavorative di solito passive, abituate a delegare, a fare una sfilata di tanto in tanto. Non è una nostra percezione, questa, è un dato.

Alle tante vertenze che attraversano da anni il paese, si sono andate a sommare giornate pesanti di “mobilitazione”, dal taglio meno vertenziale e più politico (rivolto quindi non alla soluzione della singola situazione, ma a misurare i rapporti di forza delle classi nella società). Il 25 ottobre a Roma la CGIL ha messo in campo la manifestazione più grande che questo paese abbia visto negli ultimi undici anni, dicono un milione. La FIOM ha scioperato in quattro giornate, mettendo in campo nelle manifestazioni di Milano, Napoli, Cagliari e Palermo oltre 100.000 metalmeccanici. Non una cosa che accade ogni autunno.   

A queste manifestazioni vanno poi aggiunte le mobilitazioni dei sindacati di base – quella del 16 ottobre della logistica indetta dal SI COBAS e dall’ADL COBAS e quella del 24 ottobre dell’USB –, ma anche la “tenuta” del movimento studentesco nelle scuole, che hanno visto ancora una volta cortei e occupazioni, e la generosa attività di centinaia di collettivi e gruppi che insieme ai sindacati di base hanno portato alla giornata di mobilitazione nazionale del 14 novembre e a diversi presidi il 3 dicembre, finiti a Roma con le cariche della polizia, in molte città (Massa, Livorno, Firenze) con l’occupazione e/o il sanzionamento delle sedi PD, e a Napoli con un “attacco” a Confindustria, l’occupazione dell’Università e il giorno dopo la cacciata di Ichino e Fassina.

E questo senza contare tutti quei momenti dell’autunno in cui gli ambiti di “movimento” si sono intrecciati con il mondo del lavoro, producendo significative contestazioni a Renzi (a Bergamo, Brescia, Bagnoli etc) o momenti di espressione autonoma dei propri interessi di classe, come a Livorno con il grande corteo del 15 novembre organizzato dal Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Livornesi.  

Ecco in che condizioni e con quale accumulazione di forze si arriva allo sciopero generale del 12 dicembre, l’ultima piazza nazionale di quest’anno. Una giornata che vedrà milioni di lavoratori schierarsi contro le politiche del Governo, proprio nel momento in cui Renzi cerca di “portare a casa” l’autunno. Insomma, una data importante, che prova a incarnare (anche incanalare, per certi aspetti) l’esasperazione di quote maggioritarie di questo paese.

Tuttavia, delineato questo quadro, resta ancora tutto da capire. Se vogliamo vincere questa battaglia, sconfiggendo Renzi e il padronato su un punto centrale del loro programma, dobbiamo far crescere e soprattutto far durare la mobilitazione. E, per riuscirci, dobbiamo sapere bene come stanno le cose, acquisire una visione più ampia. Chiedendoci:

  1. A che punto è il Jobs Act?
  2. Come contrastarlo? Con quali strumenti?
  3. Perché il 12 dicembre ha senso mobilitarsi, scioperare e far scioperare, scendere in piazza? E in che modo farlo? Come andare oltre i limiti dei sindacati confederali?

Andiamo con ordine.

1 A che punto è il Jobs Act?

Come al solito, partiamo dai dati di fatto, per evitare di sostituire alla realtà e alla sua complessità quel piccolo pezzo di realtà che vediamo, le nostre paure e i nostri desideri. Iniziamo quindi con un elemento tecnico, che tanto tecnico non è.
 
La riforma del lavoro che è stata approvata sia alla Camera che al Senato al momento non è altro che una legge delega. Una legge delega è un particolare tipo di legge previsto dal nostro ordinamento costituzionale: riguarda quei casi in cui la produzione della norma giuridica non avviene attraverso il meccanismo delle leggi ordinarie, che mette al centro l’attività del Parlamento, ma attraverso un meccanismo di delega, per il quale il Governo viene incaricato dal Parlamento di redigere ed emettere la norma. Negli ultimi anni questo strumento è sempre più abusato – proprio come la fiducia e i decreti-legge – in nome della governabilità e della rapidità delle decisioni. L’articolo 76 ricorda però che “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione dei principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.

In altri termini, siccome il meccanismo della delega è qualcosa di intrinsecamente autoritario, perché limita il dibattito nel Parlamento, accentra nell’esecutivo – dunque in una ristretta parte politica – il compito di legiferare, la Costituzione immaginava l’uso della delega irreggimentato da una serie di vincoli: il mandato e le linee guida devono essere indicati chiaramente, così come i limiti temporali e i termini di applicazione della legge, di modo che i successivi interventi del Governo, una volta ricevuta la delega, si configurino in maniera quasi “tecnica”.

Ora, basta dare un rapido sguardo al testo del Jobs Act per constatare che in questo caso la legge delega è quanto mai vaga, e i dettagli non esplicitati non siano affatto elementi tecnici, ma tutti di merito. Il Jobs Act si configura cioè come una delega in bianco, che il Governo Renzi chiede, peraltro blindando la richiesta con la fiducia, al Parlamento: dunque come una possibile violazione dell’ordinamento costituzionale. Tanto che molti soggetti politici, sindacali e istituzionali stanno pensando di fare ricorso ai sensi dell’articolo 76.  

Ovviamente questa possibilità di adire vie legali ci interessa molto relativamente. Quello che qui è importante sottolineare è lo spazio di intervento che questa situazione ci lascia. Il fatto che il Jobs Act si trovi ad essere ancora tutto da scrivere, ci dice che, anche una volta che è stata approvata la legge delega, la partita non è affatto chiusa, anzi! Soprattutto in questo caso, il Governo dovrà faticare non poco per tirare fuori dal Jobs Act un vero e proprio apparato normativo. Dovrà infatti presentare – entro e non oltre sei mesi! – gli schemi dei vari decreti e sottoporli al parere (non vincolante) delle Commissioni …

Lo ripetiamo: questa puntualizzazione apparentemente tecnica ci serve per capire che l’approvazione del Jobs Act non segna affatto la fine della battaglia, ma l’inizio di una battaglia di lungo periodo e quanto mai articolata. Tanto che alcuni analisti borghesi pensano che il Governo a breve si arenerà proprio su questo punto e si dovrà andare così ad elezioni anticipate.

Ma ammettiamo pure lo scenario peggiore: i decreti passano tutti come li vuole il Governo. Dopodiché li si deve applicare, e non è così semplice. Ad esempio: bisogna applicare la riforma degli ammortizzatori sociali, limitare la cassa integrazione. Siamo proprio così convinti che i lavoratori accetteranno così supinamente questo provvedimento? Mica è detto che i nostri accettino il fatto che la legge è così e non può essere cambiata, soprattutto quando si tocca la carne viva, la sopravvivenza materiale delle persone... Bisogna lottare insomma per iniziare a consolidare da ora queste ulteriori possibilità.

Quale riflessione, quale profilo psicologico ci consegna questo dato di fatto? Che mai come questa volta dobbiamo uscire dall’idea che la mobilitazione sia un fatto puramente autunnale. Con l’approvazione del Jobs Act si apre una stagione di lotta più lunga, modulata sul contrasto a ogni singolo decreto, e la vincerà chi avrà più tenacia.

A questo proposito, prima di concentrarci sul 12 dicembre, apriamo una lunga digressione, volta a mettere in discussione molti ragionamenti diffusi nel sindacato, nei movimenti etc. La prima cosa che dobbiamo fare per vincere, infatti, è sbarazzarci delle false soluzioni...

2 Come contrastare il Jobs Act?

Una delle prime false soluzioni è quella che parte dalla constatazione per cui “Renzi ha i numeri per fare quello che vuole”, e dunque “perderemo sempre finché non abbiamo la forza per incidere in Parlamento”. Per molti dei sostenitori di queste tesi, la battaglia sul Jobs Act è ormai persa e ci resterebbe solo da lavorare a metter su una forma di rappresentanza istituzionale delle nostre istanze… Per loro, finché non avremo un “nuovo” soggetto politico di sinistra, che sia una Podemos all’italiana o un cartello elettorale che va dalla sinistra del PD a Rifondazione, passando per Vendola e Landini, perderemo sempre.

Secondo noi è giusto il contrario. E non solo per la qualità di questi cartelli o soggetti “nuovi”, che hanno già ampiamente provato la loro nocività. Ma per un problema di fondo: non è vero che per bloccare le riforme o ottenere miglioramenti bisogna per forza stare al Governo o in Parlamento. Questo perché il Diritto non rappresenta  l’incontro, il dialogo di forze politiche astratte da quello che si muove nella società, un semplice gioco di numeri… Al contrario: il Diritto non è altro che la formalizzazione dei rapporti di forza delle classi in un dato momento storico! Quindi, la battaglia sul Jobs Act non viene affatto decisa in Parlamento (peraltro basterebbe vedere cosa riescono a fare oggi partiti di opposizione che hanno preso addirittura il 25%: praticamente nulla), ma dai rapporti di forza interni alla società.  

Per essere ancora più espliciti: la nostra prima preoccupazione non dovrebbe essere quella di improvvisare micro-coalizioni o cartelli elettorali, ma creare la mobilitazione sociale più vasta e radicata possibile. Una mobilitazione capillare, consapevole, reale e non mediatica, che utilizzi le forme organizzative esistenti per scavalcarle, per crearne di nuove. E che esprima un programma sintetico, chiaro, accessibile alle masse.

Di fronte a una mobilitazione del genere, di fronte alla minaccia di un nuovo protagonismo dal basso, lo stesso Governo sarà costretto a limitare la sua azione o tornare indietro. E questo per un motivo molto semplice: chi governa sa, anche più di noi, che questa situazione può sfuggirgli di mano, che deve cercare sempre di riportare tutto nell’alveo della democrazia borghese. Un irrigidimento troppo forte, a fronte di una mobilitazione sociale ampia, potrebbe collocare molte forze vive del paese – forze peraltro non “marginali”, ma già “organizzate” – fuori dal quadro istituzionale. E il Governo non può permettersi di spingere la classe verso la sua autonomia, a meno di non voler fare ricorso esplicito a qualche forma autoritaria/dittatoriale.

Insomma, il gioco parlamentare lasciamolo alle dirigenze della CGIL, a tutti quelli che vogliono conservare un esistente sempre più misero – e che oggi la minoranza PD cavalchi un certo malcontento, o che lo facciano i 5 Stelle non ci sorprende, in fondo Renzi sta delegittimando e mettendo in gioco la conservazione di quei soggetti che avevano detto di essere il partito di riferimento dei lavoratori… Noi concentriamoci sul fatto che il Governo sta giocando un gioco pericoloso: da un lato per mantenersi deve continuare ad andare avanti, da un altro lato non può andare troppo avanti perché, se vuole avere l’ambizione di governare certi processi, non deve creare un dentro/fuori dove il “fuori” potrebbe essere così imponente da sommergere con la sua massa il “dentro”. E d’altronde basta vedere l’insicurezza che trama da parte a parte questo Governo, nervoso, continuamente teso a ripetersi, a dire che ce la fa, che le cose le farà, per capire che non è così, che qui si tratta semmai di convincere se stessi, e i propri “azionisti”.

Ovviamente non intendiamo sostenere che non ci serva – mai – alcuna forma organizzativa più ampia, che non abbiamo bisogno di una rappresentanza dei nostri interessi di classe (che viene ben prima della rappresentanza parlamentare!). Stiamo solo dicendo una banalità evidente per chiunque guardi la storia dei movimenti rivoluzionari, ovvero che un’organizzazione non nasce da operazioni a tavolino, da accordi fra dirigenze, o da sommatorie tattiche, ma si forgia nel fuoco della lotta, innanzitutto coinvolgendo i soggetti che vuole rappresentare, maturando insieme strumenti materiali e protagonismo sia politico che “ideale”.

Un processo del genere richiede:

  1. ampia disponibilità sociale, diffusione e condivisione di contenuti e pratiche;
  2. tempo per studiare, dibattere, incontrarsi: tempo, quello che purtroppo ora non abbiamo, perché ora dobbiamo concentrare ogni nostro sforzo a sostenere la resistenza.

Da qualsiasi parte si guardi questa situazione, dunque, si vede che abbiamo il dovere di impedire con la mobilitazione l’implementazione di norme che andranno a incidere nella vita di milioni di lavoratori. Ma resistendo, non ci dobbiamo limitare alla testimonianza: prendiamo contatti, mettiamo in connessione, politicizziamo fette di società, ci radichiamo nella multiformità della classe. È da questo processo che esce fuori la soggettività politica: nel “semplice” fatto di rendersi la migliore organizzazione possibile, la migliore divisione dei compiti atta a vincere quei conflitti che già agitano il corpo sociale… Così, solo lottando, si costruisce il livello politico, ci si sbarazza di ogni opportunismo e si preparano le condizioni per un avanzamento qualitativo. Insomma: più cresce la resistenza più cresce l’offensiva e viceversa, proprio come in qualsiasi sport difendersi è già attaccare e attaccare è la maniera migliore di difendersi.

A questo proposito vale la pena fare un’ulteriore puntualizzazione. Molti hanno verso il Jobs Act lo stesso atteggiamento snobistico che si ha in genere verso le vertenze lavorative. Ovvero che non serva sostenerle, che “tutte le vertenze sono perdenti finché non c’è…” (completare a piacere con: il Partito, il reddito, lo spazio europeo, la rivoluzione mondiale etc). Molti sostengono infatti che le vertenze non possano vincere, o che “ridimensionare il danno” non serva a nulla, finendo così per rifugiarsi nel confortante pensiero di un’immaginaria trasformazione sociale globale che non si sa come e dove dovrebbe iniziare – come in V per Vendetta in cui la gente scende indignata per le strade da un giorno all’altro e fa saltare il potere (però cosa poi succeda il giorno dopo il film non ce lo racconta mica…).   

Le cose, purtroppo o per fortuna, non stanno così. Prima di tutto perché molte vertenze, se adeguatamente sostenute – e spesso il sindacato confederale non lo fa – possono vincere e di fatto vincono ogni giorno. E anche quando non vincono, oppongono una resistenza ai padroni che fa sì che il nostro paese sia ancora quello in cui certe tutele collettive siano le più diffuse al mondo (si pensi alla disciplina sui licenziamenti collettivi, all’istituto della cassa integrazione, all’articolo 18). Poi, tutte le grandi esplosioni politiche (vedi le ultime rivoluzioni in Tunisia e in Egitto) vengono preparate da questo lavoro quotidiano, costante, che forma i militanti a contatto con i problemi reali, radica le organizzazioni, gli dà credibilità a livello di massa e li mette, nei casi più fortunati, in condizione di gestire i veri problemi, che iniziano il giorno dopo l’insurrezione.

Queste non sono nostre speculazioni, ma modi del lavoro politico che sono già in atto! Facciamo degli esempi concreti, difficilmente contestabili. Pensiamo alla lotta per la casa, che nell’ultimo anno ha appassionato tanti compagni. La lotta per la casa è arrivata, in maniera autorganizzata, senza parlamentari di sponda, a incidere sul livello politico più alto, tanto che per fermarla hanno dovuto scrivere una legge! Ma si prenda il caso di Milano e degli sgomberi delle ultime settimane: la polizia va a colpire le singole occupazioni, spesso fatte da poche persone. Di fronte a questo attacco il movimento non si sogna di dire: “ma tanto questi son pochi, son marginali, non si può fare nulla finché etc”. No: giustamente il movimento partecipa ai picchetti, chiama alla partecipazione altri occupanti di casa, e con coraggio lotta, potremmo davvero dire, casa per casa, suscitando il consenso di chi guarda e costringendo le istituzioni ad attivarsi per “risolvere” il problema degli alloggi popolari. Accumula forza e risultati, si radica, trova o recupera pratiche generalizzabili.

E il movimento NO TAV, il cui esempio resta ancora così poco imitato? Quando venti anni fa si aprì la questione del TAV erano in pochi quelli che iniziarono a organizzarsi. Avevano di fronte interessi sovranazionali davanti ai quali molti avrebbero alzato le mani e detto: la sconfitta è inevitabile. Il soggetto che avrebbe dovuto condurre la lotta era, se non da inventare, almeno tutto da costruire. E poi? Poi qualcuno inizia a lavorare, giorno per giorno, per oltre un decennio, per un ventennio, opponendosi cantiere per cantiere, terreno per terreno, con la molteplicità dei mezzi a disposizione, facendo informazione, creando la coscienza dell’appartenenza prima a un territorio, poi addirittura a una diversa e futura umanità, dandosi sempre le forme organizzative più adeguate a quel tipo di scopo. Oggi sappiamo tutti che i NO TAV hanno, da molti punti di vista, già vinto...

Allora perché con il mondo del lavoro dovremmo avere un atteggiamento diverso? Non sarà solo un nostro pregiudizio ideologico che ci porta a pensare che le battaglie sul posto di lavoro e sulla riforma del lavoro siano destinate alla sconfitta? Fortunatamente la soluzione del problema non dipende da noi, ma dal vero movimento, quello, reale, “che abolisce lo stato di cose presenti”. Come gli abitanti dei territori martoriati non aspettano noi per muoversi, come gli occupanti di case non aspettano noi per resistere, così i lavoratori si muovono indipendentemente da noi. Le vertenze si creano ogni giorno perché c’è, ogni giorno, una contrapposizione fra gli interessi dei padroni e gli interessi di chi viene sfruttato. A noi “solo” il compito di dargli spinta, connessione, visibilità e consapevolezza.

Non ci dilunghiamo su questo punto, di cui abbiamo a lungo parlato nel libro Dove sono i nostri. Torniamo alla questione Jobs Act e concludiamo dicendo: per noi è prioritario vincere, e faremo tutto quello che possiamo, e anche di più. Dopodiché non sarà tanto l’eventuale vittoria o la sconfitta a restituirci quanto siamo riusciti realmente a ottenere. Il bilancio di questa stagione lo potremo fare fra un po’ di tempo, avendo come unità di misura l’organizzazione della classe. Come ci ricordava già Marx: “di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma l’unione sempre più estesa degli operai”..

Chiudiamo qui questa lunga digressione, e torniamo ora a parlare delle necessità del presente…

3 Perché il 12 dicembre ha senso mobilitarsi? E in che modo farlo?

Nel primo paragrafo abbiamo visto come il Jobs Act finora approvato sia un testo assolutamente vago, ancora tutto da scrivere nel merito. E abbiamo visto come il meccanismo della delega concede al Governo sei mesi di tempo per redigere i decreti attuativi. Abbiamo quindi capito che lo spazio per una lotta sul provvedimento c’è ancora tutto. Anche se non bisogna affatto rilassarsi visto che Renzi ha già affermato di voler partire subito con il primo decreto, quello sul contratto a tutele crescenti, e non ha ormai più bisogno di voti in Parlamento …

Tuttavia, questo ci dà comunque un po’ di tempo: basta vedere la paura che filtrava dagli editoriali del Sole 24 Ore o il parere di Standard & Poor’s, che declassa il rating dell’Italia perché “non crediamo che le misure previste creeranno occupazione nel breve termine”, e i “decreti attuativi” della riforma potrebbero “essere ammorbiditi” e ciò “potrebbe accadere alla luce di una opposizione crescente” al Governo…  

Nel secondo paragrafo abbiamo visto come questo spazio di lotta debba essere riempito da una mobilitazione unitaria dei vari soggetti sociali colpiti dalla riforma (lavoratori più o meno precari, disoccupati, studenti), che non molli l’osso del contendere, ma che anzi utilizzi ogni circostanza, ogni vertenza – e quante ce ne sono! – per porre il problema più complessivo della riforma del lavoro e il problema politico di contrastare e magari far cadere il Governo per contrastare e mettere in difficoltà chi lo sostiene, Confindustria in primis…  

Abbiamo inoltre visto che di fronte a riforme come il Jobs Act non ci sono scappatoie. D’altronde nella vita politica si danno dei passaggi obbligati: se ti attaccano a Stalingrado, a Stalingrado, per quanto difficile e incredibile possa essere, devi resistere. Per farlo però devi uscire dall’ottica del momento decisivo, della data decisiva, dello spararti subito tutte le cartucce. Se vogliamo vincere dobbiamo sapere che ci attende una lunga marcia di almeno sei mesi.

Se quanto detto finora è giusto, cadono di colpo tutte le obiezioni di quanti sminuiscono lo sciopero generale del 12 dicembre, e tale data diventa – anche oltre chi l’ha convocata – l’occasione per dire che non ci hanno abbattuto con un voto, per cogliere quel sentimento di opposizione al Governo che finalmente si sta diffondendo nella società. Ma, prima di capire “come starci”, smontiamo le obiezioni più comuni sulla giornata del 12.

Alcuni dicono che questo sciopero viene troppo tardi e che è ormai inutile: abbiamo visto nel merito perché non è così. Rispetto al decreto attuativo sul contratto a tutele crescenti, ad esempio, lo sciopero è quasi preventivo! Certo, tutti vorremmo sempre uno sciopero generale a ogni nuovo Governo, perché sappiamo a prescindere che è un Governo borghese, che non farà i nostri interessi etc. Ma sappiamo anche – e non da ora, visto che a molti lavoratori già nel 1969 il sindacato confederale non andava bene – che la CGIL non è certo un’organizzazione rivoluzionaria. Quindi, sarebbe certo stato meglio avere lo sciopero generale prima, ma questa constatazione non toglie niente al fatto che ormai lo sciopero esiste e va sostenuto, perché ci dà l’occasione, ancora una volta, di parlare a milioni di lavoratori, di organizzarci con loro. Insomma, ai fini della lotta, che durerà mesi, lo sciopero non arriva in ritardo, né tantomeno è inutile!

Lo dimostra il fatto che sarebbero tutti più contenti – Governo, Confindustria, giornalisti prezzolati – se non si scioperasse. Le dichiarazioni e gli attacchi in questo senso si sprecano (ricordate il finanziere Serra, sponsor di Renzi, alla Leopolda?). Anche qui, è un dato oggettivo che i padroni avrebbero preferito che questo sciopero non ci fosse. E la totale scomparsa mediatica dello sciopero generale in questi giorni lo conferma…

Già vediamo però designarsi un’altra obiezione (peraltro la stessa che agita Squinzi per dissuadere i “suoi” lavoratori dallo scioperare): lo sciopero è ormai un’arma spuntata, c’è mezzo milione di persone in cassa integrazione, poi stai scioperando chiedendo il permesso, senza manco bloccare per un giorno tutti i mezzi pubblici, quindi a chi fai del male?

Anche qui, attenzione ai giudizi sommari. Come dimostra la materialità delle lotte, l’arma dello sciopero, soprattutto se generale, è ancora potentissima. In Italia nonostante la crisi ci sono pur sempre 17 milioni di lavoratori dipendenti, c’è chi su questo lavoro vivo continua a fare soldi, continua a vendere e a guadagnare: che per un giorno questo gioco si fermi per davvero fa paura. Lo sciopero non è tanto il momento del corteo, ma il blocco della produzione e della circolazione delle merci, che parla l’unica lingua che i padroni capiscono: i soldi. Ovviamente anche qui siamo di fronte a un’insufficienza della CGIL e della UIL, ma siamo noi a doverla colmare, creando le condizioni per far scioperare altri lavoratori o non far “funzionare” regolarmente le città etc…

Ci sono poi le obiezioni di tutti i compagni che militano nel sindacato di base e che si concentrano sulla piattaforma dello sciopero sostenendo a ragione che è pessima, e che comunque con la CGIL non si deve mai avere a che fare etc. Capiamo molti di questi ragionamenti, che spesso vengono anche da esperienze di vita maturati in contesti in cui la CGIL è stato il primo ostacolo alla lotta, ma non possiamo avere un’impostazione settaria, che non ci fa fare un passo in avanti. Se milioni di lavoratori, in un contesto di attacco così forte ai diritti, reagiscono e strappano uno sciopero, non si può rimanere a guardare e sperare magari che fallisca: è interesse di tutti che la giornata riesca, perché produrrebbe un piccolo avanzamento collettivo che prima o poi rafforzerebbe anche il sindacalismo di base, o almeno gli scopi per cui lotta. Insomma, ricordiamoci sempre che il comprensibile attaccamento alla propria organizzazione non deve mai diventare un limite al fatto di organizzarsi collettivamente.  

Ecco perché il 12 il primo compito che abbiamo è fare riuscire al massimo lo sciopero, mobilitarci, far mobilitare, fare circolare questa possibilità nei posti in cui il sindacato non arriva o non vuole arrivare, aggregare altri lavoratori non sindacalizzati o sindacalizzati con altri soggetti. Perché il 12 dicembre deve essere solo un inizio!

Ma, potrà dire qualcuno, ne siamo sicuri? La CGIL non farà questa data e poi tutti a casa, autunno finito e inverno gelato? E voi non peccate come al solito di entusiasmo? Sì: a noi l’entusiasmo non ci manca, ma a nostro avviso chi dice questo non capisce l’entità dell’attacco in campo.

Con il Jobs Act e il suo tirare dritto Renzi ha messo in mostra tutto il suo sprezzo, la sua volontà di non trattare con il sindacato. Tanto che, nonostante la direzione della CGIL aspiri a tornare ai cari vecchi tempi della concertazione, a ricavarsi uno spazietto per quanto piccolo, è stata costretta a mobilitarsi in virtù di una spinta dal basso, certo, di un mondo del lavoro dipendente che ormai non ce la fa più… ma anche per mere e semplici esigenze di apparato.

Lo sanno tutti: la CGIL ha pensato il 25 ottobre e il 12 dicembre non certo per far cadere il Governo, ma per dimostrare al Governo che con lei si deve trattare, che rappresenta pur qualcosa, che ha ancora un ruolo di “mediatore sociale” importante in questo momento storico. Ovviamente sarebbero benissimo pronti a ritirarsi alla prima occasione utile, appena possono uscirsene con qualcosa di concreto in mano, ma ci sono due ordini di problemi:

  1. Renzi ormai deve andare fino in fondo e non sembra quindi disposto, oltre a qualche formalità, a tornare indietro e a produrre almeno uno straccio di mediazione che possa essere agitato dalla CGIL come vittoria;
  2. l’attenzione della base dei lavoratori c’è, e pesa.  

Insomma, anche dopo il 12 dicembre il problema “conservazione della propria struttura” resta per la stessa CGIL. Che sarà costretta a fare qualcosa. Perché se si ritirano ora, perderebbero certo iscritti, visto che apparirebbe lampante che non servono più a nulla… E se i lavoratori non si iscrivono e non partecipano non si possono fare le RSA, l’organico diminuisce velocemente etc. Un vero dramma per una burocrazia sindacale che non ha mai lavorato in vita sua, ma che ha bazzicato abbastanza il mondo del lavoro per sapere che lavorare è pesante, faticoso, che è meglio evitarlo. Se la CGIL perde anche questa battaglia senza manco combatterla seriamente, lo scenario per la stessa organizzazione potrebbe cambiare nel giro di pochi anni, ed è quantomeno lecito aspettarsi che prima di andare a lavorare o capire come e dove riciclarsi, visto che ormai gli spazi nello stesso PD sono occupati da una nuova generazione di arrivisti, quest’apparato farà di tutto…

Ok, ma la nostra autonomia? Possiamo forse fare affidamento sul fatto che l’apparato sindacale voglia sopravvivere a quest’ondata renziana? Assolutamente no! Perché siamo perfettamente consapevoli dei limiti del sindacato confederale, delle sue responsabilità e complicità con i padroni, che ci hanno portato in questa situazione… Dobbiamo quindi capire come stare, da lavoratori combattivi, movimenti sociali, collettivi, nella giornata del 12. Come possiamo cioè incidere, non essere soverchiati dalla gestione tutta (ormai solo aspirante) concertativa... Da questo punto di vista non abbiamo chissà quali ricette, ma possiamo condividere delle esperienze e provare a sperimentare.

Partiamo dalla prima cosa che dobbiamo acquisire per stare efficacemente in questo 12 dicembre: consapevolezza. Non dobbiamo illuderci sulla nostra forza o sulla capacità di determinare assetti che coinvolgono milioni di persone, quotidianamente organizzate e inquadrate non da noi, ma dal sindacato. Eppure ci sono alcune opportunità per rendere più avanzati questi assetti...

Di sicuro la prima opportunità è rappresentata dal fatto che le dirigenze sindacali affrontano con enorme paura questi momenti di mobilitazione: sono costrette ad essere radicali almeno a parole per assecondare la base, ma allo stesso tempo devono contenere in ogni modo la spinta per non essere scavalcate. La loro autoconservazione è messa in pericolo sia se non fanno nulla, sia se fanno qualcosa, visto che il loro “fare” potrebbe dare fiducia e coraggio anche ai lavoratori, dimostrargli praticamente che la propria organizzazione quando vuole la forza ce l’ha. I dirigenti sindacali in questo momento sono come degli equilibristi che camminano sul filo sottile…

La seconda opportunità è rappresentata dal fatto che le dirigenze sindacali non godono in questi anni di particolare stima da parte dei lavoratori. I loro limiti vengono ampiamente riconosciuti dai lavoratori, che però spesso non hanno la forza, l’immaginazione, o gli strumenti per pensare o organizzare qualcosa di diverso. Noi dobbiamo essere quella forza, quell’immaginazione, dare e darci gli strumenti necessari, innestandoci in quella diffusa insoddisfazione rispetto a “capi” che hanno ampiamente provato la loro inconseguenza.  

La terza opportunità è rappresentata dal fatto che uno sciopero non è fatto solo da una giornata: c’è un prima, un durante e un dopo. C’è una preparazione, c’è uno svolgimento e c’è una “coda”. Entrambi questi momenti non vanno sottovalutati. Nella preparazione è importante avviare momenti di confronto fra lavoratori e con i lavoratori, che non vuol dire che in una giornata si trova subito la quadra fra ambiti produttivi diversi o segmenti sociali diversi, ma di sicuro si inizia a conoscersi, a mettere sul piatto le proprie esigenze e l’apporto che si può dare alla causa comune. Questo è importante soprattutto per tutti quelli che militano fuori dall’organizzazione sindacale: è proprio questa distinzione fra dentro e fuori del sindacato che dobbiamo mettere in crisi, perché è funzionale solo ai progetti di “gestione” delle dirigenze. Dobbiamo cercare di creare comunicazione dal basso che faccia saltare quel modello sindacale compartimentato, corporativo, verticistico, che è stato portato avanti negli ultimi venti anni.

Ma durante la preparazione si possono fare ancora molte cose. Si può andare ad esempio in quei luoghi dove il sindacato non è presente. Perché, anche se in Italia il sindacato “copre” molti posti di lavoro, c’è una parte consistente del mondo del lavoro strutturato (pensiamo a call center, alla ristorazione etc) che non ha sponde sindacali. Quei settori possono essere coinvolti con la “scusa” di una giornata più grande.

E ancora, il giorno stesso dello sciopero: si può partecipare ai picchetti, aiutare a bloccare la produzione. E durante i cortei ci teniamo le mani libere, proviamo a fare delle azioni che facciano emergere le contraddizioni del sindacato, senza mai distaccarci dal corpo della classe, ma parlando la stessa lingua del nostro soggetto, creando consenso, facendo meglio di come fanno i loro referenti tradizionali. Su questo terreno non c’è limite all’inventiva, tenendo presente che a contare non è la modalità o la forma di quello che si fa, ma il messaggio che comunica e il risultato politico che si intende ottenere.

Infine c’è il “dopo”. Nel dopo è importante far fruttare i contatti presi, mantenerli, creare ulteriori momenti di discussione, ragionare insieme su cosa resta della giornata e come si può continuare, proponendo piccole azioni volte a intercettare il malcontento che una sola giornata non può spegnere, facendo rumore proprio quando calerà il silenzio e nel dietro le quinte le dirigenze sindacali e il Governo ricominceranno a parlarsi dopo la prova di forza, cercando magari un’intesa a nostro danno...

Insomma, da quanto detto in queste pagine, risulta abbastanza chiaro che per noi esiste una maniera di stare nello sciopero che non è un accodarsi, ma un preparare l’azione futura, facendo vivere l’autonomia della nostra classe!

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È ormai giunto il tempo di concludere, e vogliamo farlo insistendo su un elemento che abbiamo più volte richiamato in questo autunno: la constatazione che il Governo Renzi può essere battuto. Perché non è affatto invincibile, anzi: è un Governo insidiato da più parti, che deve fare fronte a molte difficoltà. Anche per questo diciamo che il Governo Renzi è una bolla speculativa, che può crescere finché si alimenta dei successi mediatici e di una presunta capacità di gestire le situazioni, ma come compare una crepa il giochino può incepparsi. È una bolla speculativa che gli azionisti finora hanno alimentato, perché conveniva a tutti, ma a breve i creditori passeranno a chiedere il conto…

Torneremo nei prossimi giorni su questo tema, cercando di dimostrare nel dettaglio perché, anche una volta ottenuta l’approvazione del Jobs Act, i nodi irrisolti dell’economia italiana, e dunque lo scontro fra le classi e all’interno della stessa borghesia, fra le sue differenti fazioni, non sono affatto risolti, e quale spazio questa situazione di instabilità ci apra (e anche quale responsabilità ci consegni nell’evitare ulteriori svolte a destra).

Qui vogliamo solo chiudere su questa visione: se il nemico che abbiamo di fronte è molto fragile, se a ogni tornante della crisi le contraddizioni si presentano più dirompenti, se la situazione italiana resta estremamente fluida, abbiamo ancora molto da fare, abbiamo ancora potenzialità da esprimere. Ma una cosa la dobbiamo sapere sin d’ora: le potenzialità saranno più sfruttabili quanto più noi saremo organizzati e avremo una visione e un’attitudine comune.

Anche da questo punto di vista siamo solo all’inizio… Sarebbe bene non fermarci, guardarci fiduciosi negli occhi e andare avanti senza paura!

Rete Camere Popolari del Lavoro