Parole vuote: sull'Egitto, l'Italia e la Giustizia per Giulio

E' di venerdì, 8 aprile, la notizia che l'ambasciatore italiano al Cairo verrà ritirato. Il vertice tra Italia ed Egitto è stato un nulla di fatto: le prove richieste dagli inquirenti italiani, tra cui i tabulati telefonici di persone vicine a Regeni, non sono state consegnate e la collaborazione degli investigatori e delle istituzioni egiziane continua ad essere pressoché assente.

Pochi giorni fa una fonte anonima, ma apparentemente ben informata dei fatti, ha inviato alcune informazioni alla procura di Roma: la condanna a morte di Regeni può essere fatta risalire tranquillamente fino al consigliere di al-Sisi, il generale Ahmad Jamal ad-Din, e dunque ai vertici più alti dell'apparato egiziano. Queste informazioni vanno a confermare molte cose che diciamo da tempo, come il fatto che Regeni è stato rapito, torturato ed infine ucciso per “conoscere la rete dei suoi contatti con i leader dei lavoratori egiziani e quali iniziative stessero preparando”.
Il ritiro dell'ambasciatore italiano al Cairo è un'azione forte. Sembra dimostrare che il governo italiano andrà fino in fondo per ottenere verità e giustizia per Giulio Regeni.
Ma fino a che punto? Fino a dove vuole davvero spingersi il Governo italiano su questa faccenda? Cosa davvero cambierà in Egitto dopo la ritirata dell'ambasciatore?
Le ritualità diplomatiche non ci interessano davvero, anche perché questa rottura non significa nessuna interruzione dei rapporti commerciali. A noi interessa vedere cosa succede nella struttura della realtà sociale e lavorativa in Italia e in Egitto. Quanto queste sceneggiate toccheranno davvero il regime sanguinario di al-Sisi, quanto cambierà nelle carceri egiziane, nelle fabbriche? Quali sono i veri rapporti che il governo italiano dovrebbe rompere per ottenere qualche cosa?
E' per via di queste domande che abbiamo deciso di tradurre un articolo di Omar Robert Hamilton, pubblicato su Jadaliyya. Leggetelo e capirete perché, secondo noi, molte delle parole pronunciate sul caso Regeni non sono altro che “parole vuote”.

Da Jadaliyya

Fratture multiple, bruciature di sigaretta, abrasioni, unghie rimosse a forza e dita rotte, numerose lacerazioni su tutto il corpo, fino alle piante dei piedi ed alle orecchie, il tutto conclusosi con la frattura del collo e soffocamento. Il corpo di Giulio è stato trovato semi-nudo a lato di una strada.
I segni della sicurezza egiziana sono riconoscibili all'istante. Nessuno ha alcun dubbio riguardo a chi abbia ucciso Giulio Regeni. E così, i riflettori sono stati puntati sulle relazioni diplomatiche ed economiche tra Italia ed Egitto.
Dal Governo italiano sono emerse parole forti. Il Ministro degli Esteri ha insistito, “Non ci accontenteremo di alcuna mezza verità”, mentre il Ministro degli Interni, al leggere l'autopsia, ha dichiarato: “è stato un pugno nello stomaco, e non abbiamo ancora ripreso fiato”. Il Financial Times ritiene che l'omicidio di Regeni “rischi di mettere a repentaglio le strette relazioni tra Roma ed il Cairo”.
Questo è un comune ritornello tra i media, ma quanta verità c'è in esso? I Ministri italiani dichiarano di cercare la verità - ma quale? La verità riguardo al singolo individuo che ha inferto il colpo mortale, o riguardo al sistema che è stato costruito su quel colpo?
E, dobbiamo chiedercelo, qual è il ruolo dell'Italia in questo sistema?
L'Italia è stata la destinazione prediletta degli export egiziani per decenni. L'Italia, in Egitto, mantiene attività per un valore di 2.6 miliardi di dollari USA, con forti interessi nel settore del greggio e del gas, nell'industria del cemento, nelle banche e nei trasporti.
L'Italia all'Egitto vende armi, munizioni e veicoli blindati di polizia. Nei cinque anni precedenti alla rivoluzione, l'Italia ha venduto all'Egitto armi di piccola taglia e munizioni per un valore di 48 milioni di dollari USA. Le camionette della polizia, le stesse che riempiono le strade di ogni città egiziana, che trasportano poliziotti in assetto anti-sommossa che poi caricheranno i manifestanti, sono prodotti dall'italiana Iveco. Ripercorrendo la strada delle centinaia di migliaia di munizioni sparate ai manifestanti, arriviamo fino alla compagnia italiana di armi Fiocchi.
Ma le armi sono solo una piccola parte della storia. Le aziende italiane fanno profitti in tutto l'Egitto. Si prenda ad esempio il cemento: l'industria del cemento è il settore più redditizio della fragile economia egiziana. Nel momento in cui, a causa delle politiche neoliberali volute da Mubarak, i beni pubblici sono stati svenduti, a dominare la produzione egiziana di cemento sono arrivate tre firme, cioè la francese Lafarge, la messicana Cemex e l'italiana Italcementi. Insieme, questi tre gruppi formano un monopolio che consente loro di applicare prezzi fissi con lo sconcertante tasso di profitto del 40%, cosa resa possibile, tra l'altro, da pratiche di lavoro criminali e da sussidi al consumo elettrico concessi dal governo egiziano.
Il 2 febbraio, due giorni prima che il corpo di Giulio fosse ritrovato, il Ministero dello sviluppo economico italiano stava conducendo una delegazione di 60 grandi compagnie che non vedono l'ora di “sfruttare i vantaggi competitivi dell'Egitto”. Due giorni più tardi, Giulio è stato lasciato sul ciglio di una strada e la delegazione se n'è tornata tranquillamente a casa. Ma un funzionario ha dichiarato che “nessuno, dal lato italiano, vuole questionare gli accordi sui quali stavamo lavorando... tecnicamente, l'omicidio e le relazioni economiche sono due faccende non connesse tra di loro”.
Ma, in verità, l'incrollabile supporto dell'Unione Europea al regime di Al-Sisi è una parte essenziale dell'endemica impunità che permette ai servizi di sicurezza di torturare e uccidere senza alcun timore di ripercussioni. Quando l'Italia manda le sue annuali delegazioni commerciali, quando il suo Primo Ministro prende la parola ad una conferenza economica egiziana e dice “La vostra guerra è la nostra guerra, la vostra stabilità è la nostra stabilità”, ciò significa solo una cosa. Fate quello di cui avete bisogno per stare al potere, per mantenere vivi i “vantaggi competitivi” egiziani ad uso e consumo dello sfruttamento capitalistico.
Imprese quali l'Italcementi fanno affidamento sull'apparato di sicurezza egiziano per mantenere forte questo vantaggio competitivo. Se non ci fosse il pugno di ferro dei servizi di sicurezza, se non ci fosse la soppressione del dissenso e delle lotte dei lavoratori, questi ampi margini di profitto non sarebbero possibili. Jack Shenker descrive la vicenda dell'Italcementi in Egitto nel suo nuovo libro, The Egyptians: a radical story:

La mastodontica Helwan Cement Company è stata fondata nel 1929 per regio decreto... Nel 2001 è stata acquistata per una quota da una venture svizzera di management e consulenza, che, più tardi, è stata [...], sostituita dalla sezione francese di una multinazionale italiana, che continua a gestirla tutt'oggi. I nuovi proprietari hanno approfittato delle nuove leggi sul lavoro egiziane, imposte dalla pressione del Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale; ciò ha permesso ai padroni di assumere i lavoratori con contratti a tempo determinato e virtualmente nessuna indennità o assicurazione - contratti che possono essere rinnovati senza alcun limite. Nel 2007, circa un centinaio di lavoratori che erano stati impiegati con questa tipologia contrattuale, con continuità e per più di 5 anni, sono stati licenziati senza alcun preavviso. La loro richiesta di parlare con i dirigenti della compagnia è stata rifiutata, e sono stati messi fuori dai cancelli della fabbrica. Un leader sindacale locale ha dichiarato che la decisione “avrebbe privato centinaia di famiglie della loro unica fonte di sostentamento”. Quell'anno, la compagnia madre della Helwan Cement, cioè l'Italcementi, con sede a Bergamo, a circa 1600 km di distanza, ha registrato un utile netto di 613 milioni di euro. [ndt Italcementi che in questi mesi sta mettendo alla porta centinaia di operai in Italia]

Giulio Regeni è andato in Egitto per compiere delle indagini sui movimenti informali dei lavoratori. Nel suo ultimo articolo, discute “la massiccia ondata di privatizzazioni avvenuta durante l'ultimo periodo del regime di Mubarak” e di come le politiche di Al-Sisi siano state “un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alla libertà dei sindacati”. Elogia “i sindacati indipendenti ... che si sono rifiutati di desistere” e “la loro radicale critica alla retorica che il regime utilizza per giustificare la sua stessa esistenza”. E dunque, anche noi dobbiamo criticare la retorica del regime internazionale, e nella nostra discussione dobbiamo dare massimo risalto a come nazioni economicamente forti, quali l'Italia, possano trarre beneficio da regimi dittatoriali in Stati clienti, in modo da sfruttarne le risorse naturali e la forza lavoro. Le élites economiche locali e le multinazionali fanno profitti astronomici mentre i servizi di sicurezza reprimono ogni opposizione interna. Da tempo, la repressione include la tortura e l'omicidio di attivisti e lavoratori. Oggi, include anche Giulio.
Il Ministro degli Interni Angelino Alfano ha detto che leggere i risultati dell'autopsia è stato “un pugno nello stomaco” e questa citazione è diventata ben presto virale. E tuttavia è questo stesso ministro che, a parte essere stato un grande alleato di Silvio Berlusconi, ha estradato la moglie e il figlio di un dissidente politico - condannandoli ad un destino sconosciuto in Kazakistan, sui cui giacimenti di petrolio il gigante energetico italiano ENI ha notevoli interessi.
Nell'agosto dell'ultimo anno la stessa compagnia, l'ENI, ha scoperto un giacimento di gas “super gigante” nelle acque al nord dell'Egitto. L'ENI ha orgogliosamente annunciato che si tratta del più grande giacimento del Mediterraneo, con un valore stimato di 100 miliardi di dollari USA. Con tutti questi soldi sul piatto, è difficile credere a ciò che i giornali dichiarano riguardo “relazioni in crisi”.
Certo, se l'Italia fosse seria quando promette giustizia, diritti umani, democrazia e affidabilità, come tutti gli altri membri dell'Unione Europea, allora la discussione sarebbe completamente diversa. Non solo gli interessi economici sarebbero sollevati contro Al-Sisi, ma si discuterebbe anche di giustizia economica e di come fermare questa economia di sfruttamento che rafforza i ricchi e indebolisce i poveri. Ora staremmo discutendo di quali riparazioni economiche gli Stati del nord e le loro multinazionali devono al sud per decenni di saccheggi che hanno permesso il rafforzamento economico di regimi repressivi, e di come far cadere questi stessi regimi una volta per tutte.
Ma non c'è interesse per una tale giustizia.
Non ci sarà nemmeno un'interruzione temporanea alla vendita di armi o alle trivellazioni, e nessun euro sarà tolto a questa (ampiamente redditizia) deregulation dell'economia egiziana.
Ci saranno parole forti. Forse vedremo portare a giudizio un poliziotto. E poi? Nulla sarà fatto per affrontare l'endemica violenza forgiata dallo Stato egiziano contro i suoi cittadini, o l'attiva partecipazione italiana in questa economia della violenza. Forse la polizia ci penserà due volte prima di torturare a morte il prossimo straniero, ma non cambierà nulla per i migliaia di egiziani abbandonati nelle celle delle prigioni ancora oggi, o per le migliaia di famiglie che ancora piangono i loro figli morti ieri. In questi momenti di sofferenza e rabbia è importante non accettare alcun soldato mandato avanti come agnello sacrificale, ma di vedere la morte di Giulio come il risultato di un sistema che è mantenuto da attori molto potenti, in tutto il mondo. Giulio Regeni si è aggiunto agli altri martiri dell'Egitto, e avrà giustizia solo quando Mohamed al-Guindy, Talaat Shabib, Adel Abd al-Sami, Mohamed al-Shafie e tutti gli altri che conosciamo, e che non conosciamo, avranno giustizia.a

Rete Camere Popolari del Lavoro