Due parole su Pino, operaio della FIAT di Pomigliano

Giuseppe de Crescenzo, 43 anni, un operaio del polo logistico della Fiat, si è ucciso stanotte nella sua casa di Afragola. Così racconta la cronaca, che non manca di ricordarci che Pino aveva problemi familiari, che le cause del gesto sarebbero attribuibili alla sua separazione, alla lontananza dai due figli. Non certo alla sua condizione lavorativa, quella di cassaintegrato a zero ore da sei anni, deportato nei reparti-confino creati dalla FIAT a Nola…

Noi abbiamo sempre pensato che dietro a un atto così intimo come un suicidio ci siano sempre motivazioni sottili e segrete, e si debba stare un attimo in silenzio, tacere e stringersi intorno agli affetti che restano, alla moglie, ai figli, agli amici che devono sopportare un colpo così duro. Qui il silenzio è la migliore forma di rispetto che si possa avere: che parli invece chi conosceva Pino, che si ricordino i suoi momenti felici. Stiano zitti i giornalisti, i politici, i commentatori da bar, che di quella vita non sapevano niente.

Ma noi invece vogliamo parlare, fosse anche soltanto per elaborare insieme questo lutto. Perché, anche se Pino non lo conoscevamo direttamente, di lui ci sentiamo intimamente compagni. Perché Pino era un operaio, perché Pino era vittima di ingiustizia, perché Pino era un militante dello SLAI COBAS.

E vogliamo parlare per sottolineare una verità indiscutibile. Noi non sappiamo quale disperazione ti porta a toglierti la vita, se davvero si possono trovare delle “cause” per un tale gesto, ma sappiamo di sicuro che se metti una persona a fare una vita difficile, dura, se gli togli il lavoro, e la lasci per sei anni in cassa integrazione, se non gli dai speranza e prospettive, ogni momento di dolore si fa più difficile, ogni difficoltà, anche personale, si fa enorme.

Come molti militanti dello SLAI COBAS, identificato già venti anni fa dalla stessa FIAT come il sindacato più battagliero dell’azienda, Pino era stato deportato nel 2008 nel reparto-confino di Nola. Un reparto dove venivano messi gli operai “fastidiosi”, fastidiosi solo perché magari avevano osato rivendicare i loro diritti, perché si erano opposti allo sfruttamento che ogni giorno si vive in fabbrica. Un reparto che non è mai stato messo in funzione, lontano da tutto, dove non si faceva nulla, dove ti assaliva il senso di inutilità, dove eri isolato dal corpo operaio di Pomigliano e dalle sue lotte, che spesso ti danno la forza per tenerti in vita. Di fronte a questo gesto della FIAT, poche erano state le reazioni “indignate” del mondo intellettuale, della società civile, degli stessi altri sindacati, che non solo non si erano opposti a questa deportazione di trecento operai, ma l’avevano ben vista per poter finalmente allontanare da Pomigliano dei sindacalisti “guastafeste”, che li inchiodavano alle loro responsabilità. È giusto ricordare questa cosa, per rendere onore a Pino e a tutti i suoi compagni che ancora resistono.

Per questo pensiamo che i responsabili di questa morte siano da ricercare nella dirigenza della FIAT, in Elkann, in Marchionne, nei sindacati complici, che hanno consapevolmente ingannato e tradito i lavoratori, che ne hanno peggiorato le condizioni con l’Accordo di Pomigliano del 2010. Un Accordo-truffa, che scambiava i diritti con il mantenimento dei livelli occupazionali, e che alla fine ha distrutto questi e quelli. Mentre si è sempre più sfruttati, si è sempre, anche più, disoccupati. Nel frattempo la FIAT si fonde con Chrysler, diventa FCA per speculare meglio sui mercati finanziari, se ne va dall’Italia, e gli enormi profitti che fa li sconta, pochissimo, a Londra…

Ecco qual è la verità dietro questa tragica storia. E se vogliamo che il gesto di Pino non sia stato vano, dobbiamo prenderci il tempo per meditare, e la voglia per agire. Per ritrovare quell’unità di classe che sola ci può fare vincere contro dei padroni che ci vogliono come macchine, come schiavi, come costi del processo produttivo, che si possono allontanare o buttare via in qualsiasi momento siano di troppo. Sappiamo che tutto questo è molto difficile, ma sappiamo anche che alternative non ce ne sono. E la nostra fiducia negli operai e nei compagni, oltre che tutta la storia del movimento dei lavoratori, ci spinge a credere che anche le cose più difficili siano possibili.  

Fonte:
Il Mediano

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