Brasile, la corsa contro il tempo

Pubblichiamo, all’indomani della giornata di mobilitazione nazionale indetta dal principale sindacato brasiliano, la CUT, un contributo inviatoci un paio di giorni fa da un compagno internazionalista che da qualche anno vive in Brasile e ha quindi la possibilità di osservare ciò che sta accadendo da una posizione privilegiata.

Ciononostante, ciò che ci ha spinto a dare spazio al testo che segue è principalmente il metodo adoperato. Lontano dagli aspetti puramente cronachistici e dalle facili contrapposizioni, esasperate invece dai principali media carioca (ma anche, e forse ancor più, da quelli occidentali), l’articolo focalizza l’attenzione sul processo di gestazione delle manifestazioni di protesta delle ultime settimane.

Ancora una volta, come già verificatosi nei casi dell’Egitto e della Turchia – giusto per rimanere alla più stretta attualità – non siamo in presenza di esplosioni improvvise, ma di salti di qualità che affondano però le loro radici in movimenti che a volte sono addirittura pluridecennali. Per di più, solo se si getta un po’ di luce sul modello di sviluppo che Brasilia ha fatto proprio negli ultimi anni (almeno in quelli dei governi del PT), andandone a scandagliare gli aspetti strutturali, si può comprendere come l’aumento di 20 centesimi di real del prezzo del biglietto trasporto pubblico, abbia potuto costituire il detonatore di un malcontento ben più generalizzato.

Riappropriarsi di un metodo di analisi della realtà che sappia rifuggire ricostruzioni approssimative e che mistificano gli attori in campo, rimuovendo del tutto il portato di classe delle proteste, ci pare un compito di primaria importanza. Al punto da pubblicare questo contributo pur non condividendolo del tutto nel merito. In particolare, laddove si corre il rischio di rappresentare il gigante brasiliano come un campione del neoliberismo, con qualche mera spruzzatina di vernice socialdemocratica, crediamo che ci sia bisogno di un’ulteriore problematizzazione che ci possa portare ad analizzare il ruolo che lo stato ha svolto nella promozione di aspetti che più tipicamente si legano all’esperienza ‘desarrollista’, di cui il presidente brasiliano Juscelino Kubishek fu uno dei maggiori rappresentanti. Non è questa la sede per andare in profondità, però ci sembra doveroso indicare almeno a grandi linee alcuni dei terreni su cui i governi del PT si sono allontanati dall’ortodossia del consenso di Washington: l’utilizzo delle banche controllate dallo stato per finanziare i settori industriali competitivi; la tutela dei settori considerati strategici, con la loro esclusione dai processi di privatizzazione (del tutto o quanto meno in parte), che pure sono stati altresì numerosi; infine, politiche di sostegno della domanda interna, con il continuo aumento del salario minimo. Proprio quest’ultima misura ci permette però di sottolineare l’importanza di un processo che se da un lato ha permesso ad una fetta numerosa della popolazione di aumentare i consumi, dall’altra non ha condotto ad un parallelo aumento delle tutele e ad un ampliamento dei diritti. Non a caso, proprio queste figurano tra le principali rivendicazioni dei movimenti che sono stati nelle strade brasiliane in queste settimane.

 

Il gigante che si è reso nelle scorse settimane protagonista dello scenario brasiliano, ossia il movimento che ha trascinato nelle strade e piazze di tutto l’immenso paese milioni di persone, è entrato in una fase di minore intensità che ci consente e ci obbliga a un primo provvisorio bilancio e a un tentativo di coglierne caratteristiche e prospettive.
Compito ovviamente tutt’altro che facile, e al quale ci avviciniamo con la massima cautela, non certo esibendo soluzioni e certezze, ma sperando di offrire spunti di riflessione.
Prima di tutto, allora, ritorniamo alle origini di questa vastissima e capillare esplosione, che ha riempito di immenso stupore la classe dominante brasiliana e – forse ancor più – i suoi nuovi boiardi lulisti, convinti di intrallazzare al potere coperti dall’onda di un sostegno popolare che in realtà appartiene ormai al passato.
Come ho già avuto modo di osservare, non è un caso che la miccia si sia accesa sul problema dei costi del trasporto urbano. Si tratta – per i costi, la pessima qualità e i massacranti tempi di pendolarismo1 – di una delle principali criticità del Brasile odierno. L’MPL (Movimento Passe Livre), con tutte le sue particolarità locali e con tutte le metamorfosi attraversate nel corso degli anni, ha dietro le spalle una lunga storia di mobilitazioni a macchia di leopardo nelle grandi aree urbane del paese, ed esprime un malcontento tra i più sentiti. Per rendersene conto basti pensare che le classi più basse della classificazione statistica brasiliana, la D e la E, l’autobus per lo più non possono nemmeno permetterselo, mentre la “classe C”, quella che di fatto ha riempito le piazze, e che è quella che maggiormente affolla i trasporti pubblici urbani, deve sacrificarvi una parte notevole del suo reddito2.

Ma il problema dei trasporti, aggravato da processi di privatizzazione che lo hanno nel corso degli anni peggiorato e reso sempre più caro3, è al tempo stesso emblema della pessima qualità di tutti i servizi sociali brasiliani (educazione e sanità in primo luogo, ma anche telefono, internet, e così via) e, infine, della politica economica dell’esecutivo, che, mentre cercava di costruirsi una reputazione di lotta alla povertà con programmi come il “borsa-famiglia”4, proseguiva in realtà la politica neo-liberista dei precedenti governi. Ad esempio riaprendo la questione delle concessioni di terre e riserve indigene al grande capitale5, o procedendo a sua volta a privatizzazioni (come quella delle autostrade) e di appalto ad interessi privati e stranieri di importanti settori dell’economia: è quanto sta per verificarsi per un settore strategico come lo sfruttamento delle piattaforme petrolifere off shore, che dovrebbero nei prossimi anni fare del Brasile uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo.
In verità, il boom brasiliano, a detta di diversi analisti, si è basato negli anni scorsi su elementi strutturalmente fragili: l’afflusso di capitali dall’estero da una parte, dall’altra l’alto prezzo delle materie prime, che sono il vero pivot dell’esportazione brasiliana, vettore di uno sviluppo basato in realtà sul dilapidamento delle risorse del paese. Fattori che hanno favorito un’ondata speculativa in gran parte fittizia, la quale ha fatto schizzare all’insù i prezzi delle abitazioni, comportando la dislocazione di quote crescenti di cittadini meno abbienti e lavoratori verso le zone periferiche urbane, con conseguente maggior acutizzazione del problema del trasporto.

Questa politica, socialdemocratica a parole, neoliberista nella sostanza, risulta più che evidente se consideriamo che la maggior parte dei tanto decantati posti di lavoro creati dal contraddittorio “boom” brasiliano sono stati in realtà lavori precari o comunque mal pagati. E che il contrasto tra la ricchezza dei pochi e la penosa povertà di molti è sì diminuito, ma rimane in Brasile stridente. Non dimentichiamo poi che il gigante latino-americano è uno dei paesi più cari del continente: i prezzi dei settori industriali nazionali – come l’automobile – sono tenuti artificialmente elevati attraverso varie misure protezionistiche6, il che però comporta una bassa qualità dei prodotti nazionali. E comunque, vuoi per quest’ultimo motivo, vuoi perché, malgrado tutto, i beni importanti risultano comunque convenienti, la bilancia commerciale brasiliana si è negli ultimi anni deteriorata, registrando nel 2012 il peggior risultato (comunque positivo) dal 20027. Con il rallentamento dell’economia cinese, uno dei mercati principali delle commodities brasiliane, le prospettive sono al ribasso. E di conseguenza gli investimenti esteri, che pure hanno raggiunto nel 2011 e 2012 cifre record, sono in frenata, il che è allarmante per un paese in cui il tasso di investimento interno sul PNL è tradizionalmente basso8.

Certo, fin che lo “sviluppo”, tant bien que mal, è stato in grado di distribuire le sue briciole anche agli strati popolari profondi della nazione, il gioco delle tre carte ha funzionato. Con i morsi della crisi mondiale tuttavia ha perso forza, rallentando la creazione di nuovo impiego9. Ciò malgrado gli incentivi al consumo, che ovviamente sono andati a pesare sul bilancio statale, facendo rialzare la testa all’inflazione, seguita dal risorgere nella massa della popolazione dei pessimi ricordi legati alle devastanti ondate di inflazione del passato.
E’ indispensabile ricordare che gli ultimi anni e mesi del Brasile sono stati percorsi da una grande serie di lunghi scioperi10 che hanno investito, guarda caso, oltre agli autisti dei trasporti, soprattutto i settori degli impiegati pubblici, federali e statali: medici, infermieri, insegnanti, funzionari doganali, agenti penitenziari, polizia, costringendo il governo – timoroso che l’ondata potesse coinvolgere anche l’”aristocrazia operaia” organizzata dalla CUT (la principale confederazione sindacale, legata al PT e personalmente a Lula stesso), a concessioni non indifferenti.
Le caratteristiche di questi scioperi sono simili a quelle che si sono verificate in passato nei paesi interessati da grandi processi d’incremento della produzione industriale e dei servizi statali, e che oggi vediamo succedersi in quei paesi che – come la Cina, il Brasile, l’India, il Sud Africa, la Turchia, ecc. – stanno percorrendo la stessa via verso la maturità capitalistica. Cioè non erano – almeno sinora – legate a processi di crisi capitalistica, come invece avviene per gli odierni movimenti dei paesi capitalistici da lungi maturi, la cui classe lavoratrice subisce da anni un attacco pesante alle sue condizioni di vita e di lavoro, bensì alle concrete prospettive di miglioramento rese possibili dalla “crescita” dell’economia nazionale.
In tale senso gli scioperi degli ultimi tempi hanno in comune con il movimento di queste settimane la rivendicazione di un miglioramento annunciato, promesso e non mantenuto, ma visto e vissuto come possibile e, in un certo qual modo, a portata di mano.
Ma, e qui sta il punto cruciale, queste aspettative di miglioramento si scontrano oggi col fatto che la crisi mondiale sta lavorando pesantemente ai fianchi il “miracolo brasiliano” e smantellando dunque giorno dopo giorno le illusioni da esso alimentate.
Vediamo dunque che – come sempre accade – per quanto i loro motivi immediati possano apparire (come gli alberi di piazza Taksim) insignificanti, i grandi movimenti sociali hanno cause vaste e profonde. Quello attuale è, per le sue rivendicazioni, un movimento “trasversale”, o se si preferisce “interclassista”, in quanto il miglioramento dei servizi sociali interessa sicuramente i più diversi e ampi strati della popolazione. Ad esso i lavoratori organizzati nei sindacati – se e in quanto vi hanno partecipato – lo hanno fatto non come lavoratori sindacalizzati ma in qualità di “cittadini”.
La grande incognita è sapere se e quando i lavoratori entreranno in scena in quanto classe, saldandosi ai giovani e ai “cittadini” (che poi spesso sono i lavoratori stessi) che hanno invaso le strade chiedendo migliori servizi, più giustizia, più partecipazione.
Per il giorno 11, giovedì, sotto la pressione degli avvenimenti, e soprattutto di una base che manifesta una crescente insoddisfazione per l’immobilismo dei vertici sindacali, la CUT ha indetto una “giornata di lotta nazionale”. Dai dirigenti sindacali, con certezza, non ci si poteva aspettare di più: uno sciopero generale sarebbe suonato come una condanna del governo di cui sono uno dei principali pilastri. E’ chiaro il tentativo di “cavalcare la tigre” e controllarla, evitando lo scollamento della base: le rivendicazioni che la CUT fa proprie sono quelle del movimento, ma cucinate alla salsa PT, ovvero con enfasi sulla necessità della riforma politica.

Il governo brasiliano sta infatti tentando, dopo i primi giorni di totale smarrimento, di riprendere l’iniziativa politica, che si svolge lungo due direttrici fondamentali:
Da una parte, concessioni, il più possibile nominali, ma anche per forza di cose in parte reali, alle rivendicazioni della piazza:
- cancellazione della PEC 37, progetto-legge di Brasilia che concentrava nella polizia federale i poteri di investigazione esautorando i pubblici ministeri e la magistratura locale (rivendicazione peraltro ambigua su sui ci soffermeremo più diffusamente in un prossimo articolo) e che i manifestanti hanno letto come tentativo di sviare le numerose inchieste per corruzione in corso;
- cancellazione del progetto di legge sulla cosiddetta “cura-gay”, che prevedeva la possibilità di cure psicologiche e psichiatriche per gli omosessuali che “volessero guarire” dalla loro presunta malattia: un regalo fatto dal Palazzo Planalto11 alle numerose e politicamente agguerrite comunità evangeliche, in cambio dell’appoggio parlamentare dei partiti che rappresentano le stesse;
- nei prossimi giorni le camere voteranno la proposta del “passe livre” per gli studenti a livello nazionale, e ci sono pochi dubbi sul risultato della votazione12;
- proposta di destinazione delle royalties petrolifere per il 75% all’educazione e per il 25% alla sanità, anche qui con pochi dubbi sul risultato parlamentare dell’iniziativa13;
- Estensione della “ficha-limpa” (fedina pulita), fin qui limitata ai politici, ai funzionari pubblici, per andare incontro all’acuto malcontento popolare contro la corruzione. Già approvato al senato, l’emendamento costituzionale passa ora alla Camera.

L’altra direttrice su cui il governo federale si sta muovendo è la proposta di una riforma politica e costituzionale complessiva, sulla quale ci soffermeremo più a lungo in una prossima corrispondenza.
Quella di Brasilia è una corsa contro il tempo. Mentre le grandi manifestazioni di piazza vivono – com’è normale dopo tanta energia spesa – un momento di pausa, altri movimenti, locali e nazionali, spuntano come funghi o tornano alla ribalta dopo che il clamore dei fatti di piazza li aveva per un momento allontanati dai riflettori: gli indios, gli abitanti delle favelas organizzati nei loro comitati, gli insegnanti di Rio, di San Paolo, di Recife che lottano per miglioramenti salariali, le comunità gay, i camionisti che hanno bloccato per tre giorni tutto il paese (con tutte le ambiguità di un simile movimento, che vede in campo “padroncini” e grandi trasportatori), determinando durissimi scontri con le forze dell’ordine e severe “punizioni” verso i crumiri; ecco alcuni esempi di una situazione estremamente critica.
Il prossimo appuntamento importante sarà, come si è detto, giovedì. Portare i lavoratori in piazza, sia pure con l’intento di disinnescare e meglio controllare il malcontento, è sempre un rischio. In questo momento un grande rischio. Il rischio di una saldatura reale tra il movimento organizzato dei lavoratori e quello popolare delle ultime settimane.
Rischio per il potere, s’intende.

Alessandro Mantovani
Florianopolis, 8 luglio 2013

note
1 Secondo un recente studio dell’IPEA, riguardante gli anni tra il 1992 e il 2009, il tempo di percorrenza casa-lavoro vede San Paolo e Rio al secondo e terzo posto mondiale dopo Xiangai. Significativo è che la media di percorrenza delle 10 principali regioni metropolitane brasiliane sia, essa pure, inferiore solo a quella di Xiangai, e superiore a quella di tutte le altre principali metropoli mondiali. Il tempo di percorrenza medio è di 42,8 minuti a San Paolo (la peggiore) e di 31,5 a Belem (la migliore). Ma ovviamente per chi abita nelle periferie i tempi si dilatano abbastanza comunemente a 4-5 ore, su autobus malandati, stipati di gente, e malsicuri (gli incidenti sono frequenti). Cfr. R.F.Moraes Pereira, T. Schwanen, Tempo de deslocamento casa-trabalho no Brasil (1992-2009): diferenças entre regiões metropolitanas, níveis de renda e sexo, IPEA, Brasilia, 2013.
2 Elaborando diversi dati, si può ritenere che per la classe C il costo del trasporto urbano possa raggiungere fino a circa l’8% del reddito, per la classe D fino al 23%.
3 “Il Ministerio da Cidade ha rilevato nel 2004 che gli autobus delle capitali statali hanno avuto un aumento maggiore dell’INPC *indice dei prezzi al consumo+: mentre l’indice è aumentato del 150,4% tra 1994 e 2003, i biglietti degli autobus a Brasilia sono aumentati del 196,3%; a São Paulo del 240%; a Fortaleza del 275%; a Salvador e Rio de Janeiro del 328,6%; e in città come Rio Branco e Porto Velho sono aumentati del 400%. (MINISTÉRIO DAS CIDADES, 2004b)” In: tarifazero.org
4 Data le complessità, una descrizione esauriente del programma “bolsa-familia” non può trovare posto in una breve nota. Ci limitiamo qui a dire che esso riguarda circa 16 di famiglie brasiliane, la cui rendita mensile si situi tra i 70 e i 140 reails (al cambio attuale 1 euro equivale più o meno a 2,8 reails), o minore, e che prevede il versamento alle famiglie di somme tra i 20 e i 220 reails, in dipendenza di fattori quali il numero dei figli. In cambio le famiglie s’impegnano, ad es., a mandare i figli a scuola e a vaccinarli. E’ stato considerato dalla Banca Mondiale uno dei migliori e maggiori programmi al mondo contro la povertà. Cfr. mds.gov.br
5 Il governo-Dilma sta portando avanti, ad es. un progetto di legge che limita i poteri della FUNAI (Fundação Nacional do Índio) nella demarcazione delle terre indigene: pur essendo un organo governativo, che peraltro in numerose occasioni si è dimostrato assai tiepido nella difesa dei diritti degli indios, purtuttavia esso viene percepito come troppo “indigenista” nella questione. Cfr. reporterbrasil.org.br
6 Secondo un articolo del Financial Times, dopo le misure introdotte nel 2012, la tassazione sulle auto importate può raggiungere fino al 340% del valore. Con tutto ciò, le importazioni continuano… infomoney.com.br
7 agenciabrasil.ebc.com.br
8 Joe Leahy, Investors worry the Dilma model is unravelling in Brazil, Financial Times, 20/5/2013 ft.com
9 Nel 2012 il numero di nuovi posti di lavoro è stato di 1,3 milioni, il peggior risultato dal 2009, anno di crisi. Cfr. novohamburgo.org
10 Si deve ricordare che in Brasile i lavoratori ricevono il salario anche quando scioperano, e ciò spiega in parte la non comune durata degli scioperi.
11 Sede del governo federale
12 La misura non soddisfa in realtà che molto parzialmente la rivendicazione del MPL, che riguarda tutti i cittadini, e sostiene cioè il trasporto come “diritto sociale”.
13 Anche qui, soddisfazione parziale: si tratta infatti delle royalties sulle concessioni future, e solo di quelle di pertinenza federale. Per le passate e per le statali nulla muterebbe.

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