[Messico] Il lavoro automobilistico tra Messico e Trump

Il Messico da qualche mese a questa parte ha conquistato un’insperata visibilità internazionale. Il motivo è certamente l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli U.S.A.. Il nuovo presidente, infatti, si è scagliato più volte in campagna elettorale contro gli immigrati latinoamericani, arrivando addirittura ad inscenare una sorta di spettacolino di wrestling durante i comizi elettorali, in cui il biondo candidato alla presidenza respingeva a suon di pugni i brutti, sporchi e cattivi messicani ().

Trump non si è però fermato alla spettacolarizzazione del razzismo. Ha annunciato il ritorno in grande stile del protezionismo, per riportare a casa i posti di lavoro che negli ultimi decenni erano “fuggiti” via.
Nell’articolo che pubblichiamo si affronta il tema partendo dal settore che è stato traino del capitalismo del XX secolo, l’industria automobilistica. L’analisi si concentra sul perché il Messico sia stato e continui tuttora ad essere conveniente per il capitale statunitense, ma non solo. Anche la FIAT, ora Fiat Chrysler Automobiles, ad esempio, gioca un ruolo non secondario, con centinaia di milioni di dollari investiti e la produzione dal 2011 della 500 a Toluca, a pochi km da Città del Messico. E allora: perché? Perché la forza lavoro in Messico costa poco, pochissimo. Salari bassi, una legislazione sul lavoro che è estremamente favorevole agli imprenditori, basti vedere le norme sulle ferie retribuite o sulla maternità. E poi come non citare le “maquilas”, le zone a sfruttamento intensificato, nate all’origine lungo la frontiera con gli U.S.A., ma che non si sono arrestate lì? Una ragione economica forte, quindi, che ha spinto la delocalizzazione verso il paese latinoamericano, con una decisa accelerazione in seguito al famigerato NAFTA, l’accordo di libero commercio siglato nel 1994 tra Messico, Canada e Stati Uniti.
Ciò che però dall’articolo non emerge forse con sufficiente centralità è la ragione politica della “fuga” della produzione automobilistica verso un paese come il Messico. Da questo punto di vista risulta utile tornare a “Forze del lavoro”, il testo pubblicato all’inizio degli anni Duemila dalla sociologa statunitense Beverly Silver, in cui si esprime la tesi secondo cui il capitale cerca di spostare la produzione in giro per il mondo per scappare dal conflitto di classe, dagli scioperi e dalle lotte dei lavoratori. Così è accaduto che l’industria automobilistica statunitense ed europea abbia “traslocato” verso lidi apparentemente più sicuri, Brasile, Corea del Sud, Sud Africa e, per l’appunto, Messico. La speranza è quella di non ritrovare la stessa conflittualità, così da potersi assicurare ampi margini di profitto. Peccato per il capitale che il conflitto operaio non lo lasci mai tranquillo e torni sempre ad emergere, magari in nuove forme.
Una tesi che, oltre che affascinante, consegna degli scenari interessanti, tutti da indagare, sia per il futuro prossimo del Messico che per quello degli Stati Uniti (e, chiaramente, anche della nostra Europa). Insomma, la storia non è affatto chiusa. I lavoratori, quelli messicani e quelli statunitensi, hanno ancora tanto da dire…

Il lavoro nell’industria automobilistica tra il Messico e Trump.
Uno dei temi preferiti dal comitato elettorale di Trump per la sua corsa alla Casa Bianca è stato quello del lavoro perso in anni di delocalizzazione produttiva verso paesi con salari più bassi. In particolare il settore automobilistico e la sua produzione in Messico sono diventati uno dei cavalli di battaglia del Tycoon.
Di fatti, il Messico è uno tra i principali paesi produttori di automobili e autoparti a livello mondiale. Occupa il settimo posto nella classifica dei principali produttori di automobili e il primo in America Latina producendo all’incirca un milione di veicoli in più del Brasile. Le esportazioni sono concentrate verso il mercato statunitense: nel 2016 l' 80% dei veicoli prodotti fu esportato negli USA (fonte Governo del Messico).
Appena eletto presidente, Trump ha voluto mostrare coerenza e pugno duro sul tema. Si è riunito con gli amministratori delegati di FIAT-Chrysler Automobiles e Ford per mettere le carte in tavola: o il ritiro dal paese latinoamericano degli investimenti diretti esteri o l’imposizione di dazi doganali fino a un 20% sulle importazioni dal Messico. La mossa sembra aver suscitato le reazioni desiderate. FIAT ha annunciato un investimento di un miliardo di dollari per rinvigorire la produzione statunitense. Ford ha ritirato un investimento di 1.600 milioni in Messico previsto per il 2017. Ultima nella corsa all’ingraziarsi il Tycoon, la General Motors che, dopo ulteriori minacce, ha annunciato 1 milione di dollari di investimento negli USA e 7.000 nuovi posti di lavoro nello stato del Michigan.
Il sogno di Trump di un’America great again, industrializzata, dove la rust belt e Detroit tornino a sbuffare fumo dalle ciminiere sembra in forte contrasto con la rappresentazione che abbiamo oggigiorno di Google e Steve Jobs.
Dovremmo forse domandarci: che fine ha fatto la classe lavoratrice? Si è davvero stretto il nodo della cravatta intorno al collo della classe operaia celebrando la trasformazione dell’economia industriale in economia immateriale della conoscenza?

L’industria scomparsa.
Durante gli anni ’90 si diffuse la convinzione che l’economia sarebbe andata sempre maggiormente verso la produzione e la commercializzazione di prodotti culturali e beni intangibili, come ad esempio le informazioni, a discapito di una produzione industriale che sarebbe lentamente andata in decadenza. In realtà, la produzione industriale non è mai stata così lontana dal diminuire: quello che invece è scaturito dalle trasformazioni iniziate negli anni ‘80 è stato un suo spostamento nei paesi del Sud Globale, dove la manodopera ha un costo più basso.
La classe operaia e lavoratrice occidentale, da metà degli anni ’70 fino ad oggi, si è vista privare di lavoro e di livelli salariali acquisiti nel secondo dopoguerra. È possibile ipotizzare che sia proprio quella classe, abbandonata dalla ‘sinistra’ istituzionale e delusa da una sinistra sindacale che non ha saputo offrire un progetto vincente di resistenza al neoliberalismo, che sostiene oggi i progetti populisti e anti-migrazione, come il governo Trump.

Neoliberalismo in Messico.
Dagli anni ’80, i governi messicani hanno approvato un insieme di politiche industriali, agrarie, estrattive e ambientali che l’hanno reso una vera e propria piattaforma industriale ed estrattiva neoliberale. Nell’82 il governo di Miguel De la Madrid iniziò il lungo percorso verso la neoliberalizzazione dell’economia, privatizzando e svendendo il patrimonio industriale e naturale dello Stato al miglior offerente, spesso a investitori provenienti dall’ingombrante vicino.
Il processo di neoliberalizzazione, tuttora in atto, è culminato nel 1994 con l’entrata in vigore del North America Free Trade Agreement (NAFTA). L’ingresso di un paese come il Messico in un’area di mercato comune insieme a due giganti come Canada e Stati Uniti ha relegato il paese a ruolo di bacino di manodopera a basso costo e di risorse naturali a disposizione dal capitale transnazionale. Dal 1987 al 2014 il lavoratore medio messicano ha perso il 78.66% del potere d’acquisto (CAM).
Sin dai suoi inizi, negli anni ’60, la maquila ha avuto il chiaro intento di attirare gli investimenti nella frontiera nord del paese, con il palese obiettivo dello sfruttamento dell’abbondante ed economica manodopera presente. Oggigiorno l’industria maquiladora non si trova esclusivamente nell’area della frontiera settentrionale del paese, è costituita invece da aziende sparse sul territorio che aderiscono al programma e producono in regimi fiscali convenienti e limiti ambientali più ‘liberali’. Gli è permesso licenziare e assumere a piacimento, importare macchinari e reimportare i prodotti senza per questo dover niente allo stato messicano.
Tra le imprese che hanno deciso di delocalizzare la produzione in Messico c’è anche la nostrana FIAT, in salsa transnazionalizzata FIAT-Chrysler Automobiles (FCA). Nonostante i numerosi salvataggi con denaro pubblico, avvenuti sin dalla sua fondazione, nel periodo 2000-2012 FIAT ha ridotto del 63% la produzione in Italia e ha aumentato del 93% la produzione in America Latina (Messico, Argentina e Brasile). Con l’acquisizione di Chrysler, FIAT ha incrementato notevolmente la produzione in Messico, iniziando a fabbricare nel 2011 la famosa FIAT500 nella fabbrica di Toluca, a poche decine di kilometri da Città del Messico… ma perché la dirigenza di FIAT è così affascinata dall’America Latina?

La convenienza della forza lavoro messicana: economicità e repressione.
La risposta è scontata: il costo della forza lavoro in Messico si aggira intorno ai 4 euro per giornata lavorativa. L’industria automobilistica - ribattezzata maliziosamente da alcuni accademici come l’‘aristocrazia operaia’- paga un salario che raggiunge la media di 158 pesos (circa 7 euro) giornalieri per operaio di catena.
Il costo della forza lavoro, però, non si riduce esclusivamente al salario: comprende anche tutti i diritti che l’impresa deve corrispondere al lavoratore e che retribuiscono il tempo non produttivo, come per esempio la malattia, le ferie e la maternità.
La stampa italiana, a seguito della pubblicazione del rapporto OCSE che stilava una classifica dei paesi dove si lavora più ore all’anno, si è immediatamente lanciata in una caciara di luoghi comuni sul Messico e sui messicani: ‘Sorpresa’, ‘e chi lo avrebbe mai detto’, è proprio il ‘il paese e il popolo della siesta’ il più stakanovista. In Messico si lavorano 2246 ore l’anno, 6.15 al giorno se si lavorasse 365 giorni, ben 456 ore in più rispetto ai lavoratori nordamericani che però mediamente nel 2015 hanno guadagnato 45.934€ all’anno, contro i 6.013€ messicani (dati DatosMacros). Per avere un ulteriore raffronto, il paese dove si lavora meno è la Germania con 1371 ore per anno, 875 meno del Messico, ma con un salario medio di 47.042€. Dati sufficientemente impressionanti, ma probabilmente da rivedere al rialzo a causa del diffuso utilizzo di straordinari illegali che probabilmente non sono stati contabilizzati nell’indice del paese latinoamericano.
In Messico la Ley Federal del Trabajo, imbarazzante legge costituzionale che regola i rapporti tra datore di lavoro, lavoratore e sindacato, stabilisce appena 6 giorni di ferie pagate a partire dal secondo anno di servizio (il primo anno niente ferie!) che aumenteranno ogni anno di servizio fino a un massimo di 12. Con l’alta volatilità dell’impiego a causa della precarietà, la stragrande maggioranza dei lavoratori usufruisce esclusivamente del minimo di sei giorni, o, nel caso di rapporti di lavoro inferiori all’anno, di zero. Inoltre, al centro del dibattito parlamentare, promosso dal partito di governo, c’è il riaggiustamento della legislazione del lavoro in materia d’infortunio: la riforma dà la responsabilità a impresari, sindacati vicini al partito di governo e governo di stabilire quali sono i tipi d’infortuni sul lavoro che meritano il pagamento del 100% dell’indennità e quali no… un po’ come chiedere al gatto in che misura risarcire il topo. I diritti di maternità (nella maquiladora la metà della manodopera è femminile) sono estremamente ridotti: proibizione di lavori pesanti per l’intera gestazione e tre mesi pagati prima e dopo del parto, dopo i quali l’impresa ha l’obbligo di concedere esclusivamente due riposi di mezz’ora ciascuno ogni turno di lavoro per l’allattamento del neonato. Rimane alle donne la scelta tra lasciare il lavoro o essere costrette a portare il neonato in catena di montaggio.
Nel Global Right Index del 2016, la Confederazione Sindacale Internazionale ha inserito il Messico -in compagnia di Stati Uniti, Romania e Nigeria- nella fascia dei paesi con “sistematiche violazioni dei diritti”. I livelli di repressione sindacale e di flessibilità della forza lavoro sono estremi. I principali sindacati messicani, a parte una piccola fazione tuttora combattiva, ma spesso violentemente repressa, sono corrotti e palesemente alleati del governo e delle imprese. I contratti collettivi aziendali, spesso firmati dai sindacati ancor prima dell’assunzione dei lavoratori, rispecchiano la filosofia della legislazione federale: garanzie minime e clausole tanto generiche da essere più a protezione dell’azienda che dei lavoratori, specialmente per quanto riguarda la flessibilità rispetto alle esigenze produttive. La forza lavoro messicana è doppiamente conveniente: a basso costo e resa docile da una costante e brutale repressione dei diritti lavorativi e sindacali.

Capitale industriale, Messico e Trump: una relazione difficile.
Le pressioni di Trump per il rientro delle industrie si scontrano con una questione non secondaria: le imprese statunitensi hanno bisogno di quei guadagni che l’economicità dei lavoratori messicani gli garantiscono per rimanere competitive.
Secondo il dipartimento del lavoro statunitense, un’ora di lavoro di un operaio del settore automobilistico è in media di 25 dollari, mentre quello messicano medio è all’incirca di 1 dollaro l’ora. Significa che per ogni dollaro che un’impresa paga a un lavoratore messicano, dovrebbe sborsarne altri 24 per pagare un’ora di lavoro del corrispettivo statunitense.
Dinnanzi alle promesse trumpiste di una rilocalizzazione dell’industria in suolo americano è di fondamentale importanza la (improbabile) visione macroeconomica del bureau della casa bianca. Quello che è sicuro è che Trump non può mantenere fede alla promessa senza incorrere in grandi conflitti: il profitto che finora hanno ottenuto le imprese transnazionali, minacciato dai dazi alle importazioni dal Messico, non potrà essere ridotto pacificamente, così come non sarà facilmente riassorbibile da un taglio delle tasse all’impresa. Trump ha dinanzi a sé due possibili strade, giacché la via della svalutazione è da escludere: tradire il suo stesso elettorato e abbassare drasticamente il costo del lavoro statunitense, il che porterebbe a chiedersi chi consumerà i beni prodotti se sono proprio gli USA i principali consumatori a livello mondiale; oppure, assai più improbabilmente, può puntare all’ampliamento della classe media e della sua capacità di consumo per poter assorbire le perdite delle imprese attraverso un ampliamento del mercato; o un misto di entrambe.
Senza dubbio l’avvento di Trump apre una stagione di forte instabilità per il Messico, ma anche di un possibile recupero di una sovranità nazionale distrutta dall’entrata in vigore del NAFTA.
Circa la metà degli investimenti diretti esteri (e l’indotto che ne dipende) proviene proprio dagli USA. Una riduzione di questi potrebbe portare a un aumento della disoccupazione che spingerebbe la classe operaia e lavoratrice a partecipare ad un ciclo di proteste che potrebbe far tremare il consolidato sistema partitico-mafioso messicano. Il sistema PRIAN (l’accordo collusivo tra PRI e PAN che conforma una dittatura informale) che celebrerà il suo simulacro democratico nelle elezioni presidenziali nel 2018, comincia a scricchiolare proprio sotto il peso dell’avvento di un governo nordamericano apertamente anti-messicano (per approfondire: articolo di Perez Gallo).  La speranza è che, sotto la pressione dell’attacco yenkee, la prossima legislazione messicana si smarcherà, anche tenuamente, dalla politica di shock neoliberale costante, fatta d’impoverimento, massacri e paramilitarismo, per concedere una (falsa) facciata democratica che dia un momento di respiro alle organizzazioni attive nel paese.
Per quanto riguarda la classe lavoratrice sarà da vedere se le organizzazioni sindacali indipendenti sapranno approfittare del momento d’instabilità in vista, per organizzare l’esasperazione popolare e sfidare il sistema sindacale mafioso-corporativo prevalente nel paese.

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