L’impatto dell'occupazione israeliana sui lavoratori palestinesi

Pubblichiamo la traduzione realizzata da un nostro compagno di un articolo che illustra le conseguenze dell'occupazione israeliana sui lavoratori palestinesi.

I meccanismi di funzionamento dell'apartheid israeliano risultano fortemente funzionali allo sviluppo capitalistico dell'entità sionista. Il controllo dei flussi di manodopera è, a questo riguardo, la chiave di volta del sistema di sfruttamento che viene perpetuato quotidianamente contro i palestinesi. Senza dimenticare che, come è brillantemente affermato nell'articolo, le istituzioni internazionali si rendono complici dei crimini sionisti perché lavorano esclusivamente nell'ottica di “rendere sostenibile la realtà attuale” quando, come ha affermato la stessa ILO (International Labour Organization) “nessun reale miglioramento può aver luogo, fintanto che le restrizioni imposte dall’occupazione israeliana, e l’occupazione stessa, non verranno rimosse”.

Speriamo quindi che questa traduzione possa essere da stimolo per approfondire le condizioni della classe lavoratrice palestinese ed il ruolo che essa può giocare nella resistenza all'occupazione.

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L’impatto dell'occupazione israeliana sui lavoratori palestinesi

di Palestinian Grassroots Anti-apartheid Wall Campaign
30 ottobre 2011

Tratto da: http://www.stopthewall.org/impact-palestinian-workers-under-israeli-occupation

Dall’inizio dell'Intifada nel 2000, Israele ha trasformato le già dure condizioni sotto occupazione in un incubo di distruzione e prigionia. La vita economica ha sofferto gravemente e la disoccupazione è salita alle stelle. Dal settembre del 2000, più di 432 fabbriche e 9735 piccoli negozi e bancarelle sono stati distrutti, mentre l’industria di Gaza ha subìto un completo crollo a causa della distruzione portata nella Striscia dagli attacchi israeliani del 2008/9 e del seguente assedio.


I lavoratori palestinesi risentono particolarmente di questa distruzione e delle restrizioni poste su ogni aspetto della vita, che rendono quasi impossibile raggiungere i posti di lavoro e guadagnare un salario dignitoso. Nel suo ultimo report sulla situazione dei lavoratori nei Territori Occupati, l’ILO riferisce che “nessun reale miglioramento può aver luogo, fintanto che le restrizioni imposte dall’occupazione israeliana, e l’occupazione stessa, non verranno rimosse”. Per il movimento operaio palestinese la battaglia per l’auto-determinazione e la libertà è diventata una componente intrinseca ed un requisito indispensabile al raggiungimento delle rivendicazioni della classe operaia.

La grande rivolta: uno dei più lunghi scioperi nella storia operaia

Il movimento operaio palestinese nacque nei primi anni ’20, e crebbe in forza fino alla Nakba1, nel 1948. Seppur alcuni lavoratori arabi inizialmente aderirono alla sezione araba dell’Histadrut2, divenne subito chiaro che quel sindacato privilegiava i lavoratori ebrei e aveva poco interesse a lottare per i diritti di tutti i lavoratori. Fino al 1948, e mentre l’Histadrut esercitava una forte pressione sulle autorità coloniali contro di loro, i sindacati palestinesi hanno combattuto sia per i diritti dei lavoratori palestinesi, sia contro la discriminazione sionista.

Durante la Grande Rivolta del 1936, il movimento operaio palestinese rivestì un ruolo di primo piano. Fattori chiave che accesero la rivolta furono l’appropriazione della terra nelle campagne da parte del movimento sionista, i bassi salari e la crescente disoccupazione tra i lavoratori palestinesi, in riferimento alla quale le campagne di “conquista del lavoro” dell’Histadrut, che puntavano a rimpiazzare lavoratori arabi con lavoratori ebrei, ebbero un ruolo non secondario. La rivolta crebbe fino a trasformarsi in un’insurrezione nazionale, durante la quale le autorità coloniali inglesi uccisero il leader della resistenza Sheikh Izz al-Din al-Qassam, nel 1935. Evento eccezionale, la classe operaia araba proclamò uno sciopero generale di sei mesi, uno degli scioperi più lunghi nella storia operaia.

Dopo la fine della rivolta nel 1939, nonostante la perdita della sua leadership, il movimento operaio crebbe. Nacquero nuovi sindacati e le organizzazioni si diffusero rapidamente. Tuttavia, dopo la Nakba del 1948, con l’espulsione di gran parte della classe operaia e dei leader dei sindacati dal nuovo Stato di Israele, il movimento operaio fu gettato nel caos. In Israele, l’Histadrut e altre istituzioni ebraiche sioniste andarono a formare una serie di corpi para-statali che continuavano a mirare al consolidamento dei diritti dei lavoratori ebrei, a scapito di quelli palestinesi. Cercando di relegare i lavoratori palestinesi ai gradini più bassi e con i più alti livelli di sfruttamento, le istituzioni sioniste cercarono di escludere i palestinesi, il più possibile, dal mercato del lavoro qualificato, per far sì che i nuovi immigrati ebrei potessero trovare lavoro.

I cittadini palestinesi di Israele: dalla legge marziale al completo apartheid

Dal 1948 al 1966, le autorità israeliane imposero la legge marziale solo su una parte della popolazione: quei palestinesi che erano rimasti e che erano diventati cittadini di Israele. Ciò serviva, tra l’altro, da importante strumento di regolazione dell’entrata dei palestinesi nel mercato del lavoro. Quando la disoccupazione fra la classe lavoratrice ebraica aumentava, le autorità militari rilasciavano meno permessi (richiesti ai palestinesi che volevano lasciare i loro villaggi) al fine di proteggere i lavoratori ebrei dalla competizione con quelli palestinesi. Comunque, con il miglioramento dell’economia negli anni ’60, soprattutto nel settore delle costruzioni, i controlli divennero più blandi.

Tuttavia, ancora oggi i palestinesi con cittadinanza israeliana sono sottoposti ad un sistema di discriminazione e sono letteralmente privati del loro diritto al lavoro. Agli operai arabi non è concesso lavorare in quelle che sono definite “industrie per la sicurezza”, come quelle per la produzione di armi, in aeroporti, porti e raffinerie, la maggior parte delle industrie hi-tech; essi sono quindi praticamente tagliati fuori da una fetta significativa dell’economia israeliana. Le imprese israeliane possono anche richiedere il servizio militare come precondizione per l’assunzione, riservando quindi queste posizioni agli ebrei, in quanto i palestinesi non servono nell’esercito israeliano. Nel 2009, la compagnia pubblica delle ferrovie ha deciso di licenziare 150 dipendenti arabi, proprio perché non avevano servito nell’esercito.

La discriminazione nel settore pubblico è lampante. Nel 2010, per esempio, dei 12000 lavoratori dipendenti della compagnia elettrica pubblica di Israele, sono l'1,3% era arabo. A livello generale, la percentuale degli arabi impiegati nelle aziende pubbliche è meno del 2%. Se la passa un po’ meglio chi lavora nel settore privato. Nel 2009, 15000 laureati arabi erano o disoccupati o occupati al di fuori del loro ambito professionale. Disastrosi i numeri anche nel crescente settore dell’hi-tech; nel 2010, su 84000 posti, solo 500 erano occupati da ingegneri arabi.

Agli arabi sono destinate anche molte meno sovvenzioni dallo Stato; pur rappresentando il 20% della popolazione, ricevono meno del 5% del budget dello Stato. Il risultato è che la povertà è molto più elevata nelle comunità arabe, e la grande maggioranza delle città (46 su 47 nel 2001) con tassi di disoccupazione sopra la media, è palestinese.

Il lavoro sotto occupazione: cacciati dalla terra, sfruttati in fabbrica

Nel 1967, con l’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, anche il resto della Palestina storica finì sotto il controllo israeliano. Lo Stato israeliano cercò di cooptare il lavoro palestinese e di incorporarlo nella sua economia, nella sua espansione e nei suoi progetti di colonie. Politicamente, l’obiettivo era quello di evitare l’impatto destabilizzante di un’alta disoccupazione, di raffreddare la resistenza all’occupazione attraverso le assunzioni in Israele e di ostruire ogni soluzione politica che avrebbe potuto costringere Israele al ritiro dai territori occupati. Il continuo sequestro della terra, il controllo delle risorse e le restrizioni su produzione e commercio e, ultimo ma non di minor importanza, il danno arrecato al sistema educativo e alle opportunità di formazione professionale per i palestinesi, indebolirono la possibilità di un’economia palestinese produttiva e indipendente. La quota della produzione agricola destinata al sostentamento dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza è crollata dal 35% del 1967 all’8% di oggi. Poiché nessun altro sviluppo economico significativo è stato concesso dall’occupazione, la forza-lavoro dalle campagne non ha avuto altra possibilità se non quella di diventare forza-lavoro sottopagata e non protetta nell’economia israeliana.

Quando sempre più palestinesi iniziarono a lavorare nelle fabbriche e nei centri urbani, i sindacati cominciarono ad organizzarsi. Visti come una minaccia dalle autorità militari israeliane, gli attivisti sindacali furono attaccati, imprigionati e deportati. Nonostante questa repressione, l’attivismo fra i lavoratori palestinesi aumentò, raggiungendo l’apice alla fine degli anni ’70. Quando nel 1987 scoppiò la prima Intifada - come la rivolta del ’36 - scioperi e boicottaggi giocarono un ruolo molto importante nella resistenza popolare.

Maestri e professori subirono una spietata repressione nel momento in cui le autorità israeliane iniziarono a vedere l’educazione (e la vedono ancora così) come una minaccia politica. Nel 1980, le autorità israeliane presero il controllo completo sui curricula palestinesi ed istituirono un “giuramento di lealtà” all’occupazione per formare il personale straniero. Durante la prima Intifada le università rimasero chiuse, secondo un ordine militare, per quasi tutto il tempo e l’insegnamento privato fu reso illegale e punibile dall’esercito.

Con la fine dell’Intifada e la firma del processo di “pace” di Oslo nel 1993, i lavoratori palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza si ritrovarono nuovamente sotto il controllo delle stesse istituzioni sioniste che, sin dalla fondazione dello Stato, avevano applicato pratiche discriminatorie nei loro confronti. I nuovi accordi trasformarono le aree sotto il controllo palestinese in dei Bantustan e i lavoratori avevano spesso bisogno di permessi per viaggiare o lavorare al di fuori di essi. Di nuovo, Israele si servì di questi lavoratori per costruire la sua continua espansione e creare nuove colonie. In altre parole, Israele si serve dello sfruttamento del lavoro palestinese per consolidare la colonizzazione e la “Bantustanizzazione” della Cisgiordania.

Ghetti sostenibili: maquiladoras3 per la Palestina

Nel 2002 hanno avuto inizio la costruzione del Muro e la conseguente cementificazione del Bantustan. Contadini e lavoratori agricoli sono ora più impossibilitati che mai nel raggiungere i loro campi, mentre altri lavoratori, soprattutto nei dintorni di Gerusalemme, si ritrovano disoccupati a causa dell’impossibilità di raggiungere i loro posti di lavoro. Per esempio, dopo il maggio 2006, il Muro ha tagliato fuori 75000 persone di Abu Dis e altri villaggi palestinesi vicino Gerusalemme, non consentendo loro di raggiungere la città dove lavoravano.

La principale forma di controllo e di regolamentazione dei lavoratori palestinesi provenienti dalla Cisgiordania e da Gaza è il “sistema di autorizzazione”. Sono molti coloro i quali dipendono da questo sistema, e quelli che ottengono i permessi per lavorare in Israele devono aspettare molte ore ogni giorno ai checkpoint per recarsi sul posto di lavoro. Questi lavoratori hanno una posizione precaria; i loro permessi sono a breve termine, e se uno di loro o un membro della sua famiglia partecipasse ad attività politiche, rischierebbe di perdere i permessi, e quindi il lavoro e i suoi mezzi di sussistenza.

Le restrizioni rendono difficile, se non impossibile, ottenere i permessi da parte dei lavoratori più giovani, così molti di loro sono costretti ad entrare nel paese illegalmente, o reperendo i permessi sul mercato nero. I maltrattamenti su questi lavoratori “illegali” sono frequenti; essi devono affrontare il fuoco della Polizia di Frontiera e, se catturati, ore di detenzione arbitraria con trattamenti disumani e torture. Almeno il quaranta percento dei palestinesi che entrano in Israele ogni giorno per lavorare lo fa senza un “permesso”.

Il Muro e gli insediamenti dei coloni hanno anche creato una situazione in cui i contadini sono costretti ad ottenere permessi per lavorare i loro stessi terreni dall’altra parte del Muro, o nei pressi degli insediamenti. I richiedenti devono soddisfare delle “condizioni di sicurezza” e presentare dei documenti per provare una “connessione con la terra”. A quelli che ottengono i permessi è spesso concesso di recarsi sui propri terreni solo per brevi periodi durante la stagione del raccolto, rendendo la manutenzione della terra impossibile.

A Gaza, dove l’assedio israeliano ha completamente isolato il territorio, la situazione è peggiore. Il 60% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e dipende dagli aiuti, mentre la disoccupazione è al 38% (e a circa il 60% fra i lavoratori under 30). I costanti bombardamenti, uniti al divieto israeliano di importare materie prime, hanno paralizzato la maggior parte delle industrie. Anzichè affrontare il problema dell’Occupazione, le agenzie internazionali per lo sviluppo, con il supporto di Israele, stanno lavorando nella West Bank per rendere sostenibile la realtà attuale, rilanciando il movimento di beni e lavoro tra i ghetti e le zone industriali.

Tutte le zone industriali richiedono una forza lavoro mobile e a basso costo, ottenuta grazie alla depressione dell’economia palestinese. I posti di lavoro che producono sono altamente vulnerabili e dipendono dal mercato israeliano e dalla sua politica interna. Nessuna legge sul lavoro è stata ancora concordata, garantendo così un periodo in cui i lavoratori saranno senza protezione legale. Le zone stanno crescendo rapidamente, e ci si aspetta che entro il 2025 circa 500000 palestinesi saranno impiegati in queste zone industriali.

Le zone effettivamente assicurano mano d’opera palestinese a basso costo che fabbrichi prodotti israeliani, che sono poi o venduti ai palestinesi, o esportati dalle aziende israeliane sui mercati statunitensi, europei e del Golfo. Cisgiordania e Gaza continueranno a funzionare come mercati controllati. Complessivamente, le esportazioni israeliane nella West Bank e a Gaza sono aumentate da 0,8 miliardi di dollari nel 1988 a 2,6 miliardi nel 2007, solidificando la dipendenza dell’economia palestinese da Israele. Gli investimenti stranieri nell’area saranno controllati dall’amministrazione militare israeliana, conferendo legittimità alla confisca delle terre e all’occupazione in generale.

Alla fine, tutto ciò consoliderà il regime di Bantustan in Cisgiordania e Gaza e farà in modo che i palestinesi restino soltanto un serbatoio di mano d’opera a basso costo, controllata da Israele. La resistenza palestinese può essere punita attraverso la chiusura e la devastazione dell’economia.

Di fronte a queste prospettive, come la lotta dei lavoratori palestinesi contro l’occupazione, ringraziamo le organizzazioni internazionali per la loro solidarietà con il nostro popolo e per le loro recenti dichiarazioni a supporto della nostra gente contro l’occupazione israeliana. E’ arrivato il momento per tutte le organizzazioni mondiali di decidere di boicottare tutte le istituzioni israeliane implicate nell’occupazione e nelle sue pratiche, di imporre un embargo militare contro Israele, e sospendere gli accordi di libero scambio finchè Israele continuerà e mantenere la sua occupazione, a negare a tutti i rifugiati palestinesi il loro diritto al ritorno, a trattenere migliaia di prigionieri palestinesi nelle sue prigioni, a costruire e mantenere il muro dell’apartheid e le sue colonie nella nostra terra.

1Nakba, parola araba traducibile con “catastrofe”, è il periodo di insediamento dello stato israeliano, possibile solo grazie a quella che Ilan Pappé ha definito “pulizia etnica della Palestina”, vale a dire l'espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle proprie terre, avvenuta per mezzo di violenze indicibili.

2L'Histadrut, sindacato israeliano fondato nel 1920, si è da subito configurato come un'istituzione a difesa della sola popolazione di lingua ebraica. Negli anni è diventato un pilastro dello stato israeliano, arrivando ad essere proprietario ed a gestire alcune delle più importanti imprese del paese.

3Maquiladora è la parola messicana utilizzata per descrivere le fabbriche funzionanti nelle cosiddette Zone Economiche Speciali. Queste ultime sono aree in cui vige una legislazione diversa da quella in atto nel paese di appartenenza. Essa risulta estremamente favorevole alle imprese che lì investono. Le società sono infatti esenti dal pagamento delle tasse (o comunque pagano cifre bassissime), possono approfittare di manodopera a bassissimo costo e cui è sistematicamente impedito di organizzarsi per lottare per il miglioramento delle condizioni di lavoro.