[Firenze] Autobus fermi, autisti in movimento

Che succede in ATAF? Il 5 dicembre scorso gli autisti ATAF sono tornati in piazza, impossibile non accorgersene: in mattinata due lunghi serpentoni di autobus si sono diretti verso il deposito di via Pratese a Peretola e il deposito di viale dei Mille, accompagnando così la giornata di sciopero che ha ottenuto un’adesione del 70%.

Gli autisti di ATAF non sono affatto nuovi a questo tipo di protesta: per comprendere a fondo le ragioni di questo sciopero è forse utile ripercorrere le tappe di una mobilitazione che procede ormai da qualche anno.

Privatizzazione
Tre anni fa: con delibera del Consiglio Comunale del 22 dicembre 2011 veniva avviato il processo di privatizzazione dell’azienda pubblica ATAF
(nota 1). Per avanzare un passo così impopolare ci voleva un sindaco come Matteo Renzi, il quale si servì abilmente della sua capacità di comunicatore per presentare i lavoratori come una corporazione opposta alla cittadinanza: questi ultimi, per bocca del sindaco o di altri membri dell’amministrazione, furono definiti fannulloni, privilegiati ed anche fascisti. A rendere tuttavia più agevole l’operazione, venne il taglio dei finanziamenti ai comuni che rese più semplice giustificare la vendita di un’azienda in perdita e troppo costosa per le magre casse municipali, tanto che il processo di vendita stesso fu preceduto da riduzioni o vere e proprie soppressioni su circa trenta tratte, e dall’annuncio di un piano industriale da 570 esuberi su 1300 dipendenti.

La resistenza dei lavoratori, pur evitando i licenziamenti, non interruppe il percorso di privatizzazione, che andò a buon fine. Se nel giugno 2012 Bus Italia/Sita Nord (controllata di Ferrovie dello Stato) diventava padrona di Ataf gestioni (insieme a Cap e Autoguidovie), l’opposizione costante dei lavoratori consentì di coagulare intorno alla vertenza l’attenzione di altri settori della popolazione, studenti, altri lavoratori, anziani, gli stessi parenti degli autisti, dando infine vita ad un Comitato contro la privatizzazione. Le motivazioni originarie della nascita del comitato furono varie, la paura di un aumento del biglietto e del peggioramento del servizio, o quella, ben più pressante, di perdere una fonte di reddito in famiglia (nel caso dei parenti); resta il fatto che nei momenti più aspri della vertenza riuscì a smorzare l’isolamento drizzato intorno alla lotta dalla classe dirigente cittadina.

La nuova proprietà, nel frattempo, non restò a guardare, impegnandosi tanto nel recupero di margini di profittabilità accettabili quanto nell’imposizione di un’organizzazione del lavoro più autoritaria. I primi a farne le spese furono 35 lavoratori assunti con contratto di apprendistato e non rinnovati; successivamente, nel febbraio 2013, l’azienda tentò di dividere i lavoratori annunciando 194 esuberi, in maggioranza tra il personale a terra. La ristrutturazione interessò poi i lavoratori della Dussmann, la ditta alla quale era appaltato il servizio di pulizia, cui furono imposte 30 procedure di mobilità su 55 lavoratori ed una diminuzione delle ore lavorate e quindi del salario.
Per ripercorrere brevemente le tappe della privatizzazione e l’entità degli interessi in campo, ai tempi producemmo il seguente video.

Il fuoco cova sotto la cenere
Nonostante le pressioni aziendali, la situazione registrò uno stallo sino al dicembre 2013. In apparenza, i lavoratori davano l’idea di essersi arresi: presidi di controinformazione ai cancelli del deposito poco partecipati, scioperi canonici, partecipati ma non incisivi, sorretti da scarso protagonismo e depotenziati dalla legge 146 del 1990 (che obbliga i lavoratori in sciopero a garantire un livello minimo di servizio). Cedendo al ricatto degli esuberi, la maggioranza della RSU, esclusi i Cobas, firmò a gennaio un accordo con l’azienda che prevedeva la riduzione del minimo di pausa da 25 a 15 minuti, e l’estensione del periodo massimo di guida consecutiva consentita da 4 ore a 4 ore e mezzo.

Le divisioni interne alla rappresentanza sindacale tra una componente concertativa ed una più radicale rappresentata dai Cobas, portarono poi ad un momento di rottura. Nel febbraio 2013, infatti, CGIL-CISL-UIL e FAISA/UGL sciolsero l’RSU, ricostituendosi poi in RSA ed invitando successivamente i lavoratori a disertare le elezioni per l’RSU per invalidarle: nonostante la pressione dei confederali, la grande maggioranza dei lavoratori premiò i Cobas che li avevano sempre messi in guardia dall’accettare il peggioramento insito nella privatizzazione, andando al voto per la nuova RSU ed eleggendo una rappresentanza formata da 12 delegati del Cobas e da 3 del SUL. Al contrario, dunque, di quanto appariva all’esterno, in azienda la lotta contro la privatizzazione aveva mutato gli equilibri sindacali, preparando il terreno per lo sciopero selvaggio di dicembre 2013, senza che vi fossero evidenti segni di rottura o atteggiamenti conflittuali visibili immediatamente ad occhio nudo.

Lo sciopero selvaggio del 5 e 6 dicembre 2013
Ad ottobre 2013 l’azienda annunciò lo spacchettamento di ATAF in tre parti e la disdetta del contratto integrativo da realizzarsi entro il 1° gennaio 2014. In particolare, questa seconda possibilità preoccupava i lavoratori: la proprietà era interessata, infatti, a riportare gli autoferrotranvieri fiorentini alle condizioni previste dal contratto nazionale di lavoro. Per i lavoratori ciò significava 2 ore di lavoro settimanale in più, 32 riposi annuali in meno, la possibilità di impegnare l’intera giornata nella guida, contro il turno unico vigente, l’impossibilità di scegliere se fare turni spezzati o meno, pause più brevi, stacchi oltre i 30 minuti non pagati ed un massimo raggiungibile di guida effettiva più alto. In sostanza, lavorare in meno, per più tempo ed a ritmi più elevati.

Questa strategia aziendale, legata al recupero di margini accettabili di profitto, entrò radicalmente in conflitto con gli interessi dei lavoratori, per i quali un aumento dei tempi e dei ritmi, oltre ad essere difficilmente sostenibile, inficiava la possibilità di ottenere nuove assunzioni. Così il 5 e 6 dicembre 2013, sull’onda della rivolta degli autoferrotranvieri genovesi (19-23 novembre), i lavoratori ATAF misero in atto due giorni di sciopero selvaggio, rompendo i limiti imposti dalla legge e bloccando completamente il servizio. L’azienda, di fronte a tanta determinazione, cedette e accettò di trovare un accordo con l’assemblea dei lavoratori. I problemi, così, furono rinviati ad una trattativa da farsi entro il 31 gennaio 2014.
Nel frattempo, BusItalia/Sita nord aveva mobilitato tutti i suoi referenti politici, compresi elementi interni alla magistratura: i lavoratori di ATAF ricevettero multe per un valore medio di 600 euro pro-capite, mentre l’azienda avrebbe proceduto a sospensioni punitive nei confronti degli scioperanti (effettivamente sono state comminate 4 giornate di punizione), portando a 1000/1100 euro la somma complessiva che i lavoratori dovranno pagare per aver infranto le fasce di garanzia previste dalla legge 146/90.

Accordo
Il 31 gennaio, nonostante il rinvio, non fu firmato nessun accordo, cosicché l’indomani l’azienda operò la disdetta di tutti i contratti integrativi siglati dal 1932 a quest’anno. Se non fossero intervenuti altri accordi, da marzo i lavoratori avrebbero lavorato per molte più ore percependo mensilmente 300 euro in meno. Lo sciopero di dicembre, tuttavia, aveva ammorbidito la posizione aziendale e dato una prova di forza. A marzo, dopo un lungo braccio di ferro, venne siglato un accordo leggermente peggiorativo, ma che inficiava notevolmente le intenzioni iniziali di ATAF gestioni: 84 riposi, 25 giorni di ferie, turni spezzati da affidare volontariamente massimo al 13% delle maestranze, e lungo un nastro orario di 9 ore e 30 minuti (e non 12 o 13); erogazione del premio di risultato (circa 800.000 euro per l’anno 2013, ossia 800 euro ad autista), e sblocco di 1,1 mln nel 2015 (circa 1.100 euro ad autista). L’orario degli autisti si allungava, tuttavia, di circa 20 minuti al giorno, per un totale di 39 ore settimanali.

L’azienda aveva ottenuto un accordo integrativo “modello”, da poter spalmare su altri servizi di trasporto pubblico urbano: per BusItalia, l’esito della battaglia combattuta a Firenze avrebbe avuto conseguenze sulle gare d’appalto di altre città metropolitane, in procinto di svendere il loro servizio di trasporto urbano (Genova, tra le altre). Dopo qualche giorno dalla firma, l’accordo venne approvato con referendum dai lavoratori, con una consistente presenza di NO (37% dei votanti, circa 300 lavoratori), che, nonostante l’evidente ricatto mosso dall’azienda, rappresentava una spia che l’opposizione interna si era tutt’altro che spenta.

Profitti in crescita, servizio in picchiata
Nel frattempo, l’azienda ha iniziato a macinare profitti: a detta del presidente Renato Mazzoncini, il deficit nel 2013 era ancora a 2.700.000 di euro, mentre nel 2014, secondo l’azienda, si prevede circa mezzo milione di utili (nota 2). Una parte dei soldi estratti dal sudore e dai nervi dei lavoratori, un’altra ottenuta grazie all’aumento del biglietto, al taglio delle linee e di alcuni servizi (in particolare il taglio di alcune linee periferiche non è andato certo a colpire la mobilità delle classi abbienti; tutt’altro). A marzo, infatti, è stato disdetto il contratto con un’azienda dell’indotto, la Tecnobus, produttrice di piccoli bus elettrici, provocandone de facto il licenziamento collettivo dei dipendenti; dal 1° luglio, poi, il prezzo del biglietto acquistabile tramite sms è salito da 1,20 a 1,50 euro (parliamo di circa 6.000 biglietti venduti quotidianamente), e si prevede un aumento corrispondente del biglietto cartaceo.

A partire dal 29 settembre l’azienda ha disdetto tutti gli accordi aziendali (tranne, naturalmente, quelli stipulati a marzo). Questi accordi hanno assunto per i lavoratori un perno importante su cui organizzare la propria vita familiare e lavorativa, proviamo dunque a elencare alcune delle conseguenze della disdetta:

  • in caso di sinistro, come da contratto nazionale (acc. 26/4/13), l’azienda può richiedere il pagamento fino a 4.000 Euro in caso danni causati dagli Autisti;
  • viene meno il fondo di solidarietà, con cui l’azienda rimborsava i lavoratori messi forzatamente in aspettativa per malattia;
  • viene ripristinato il turno intero natalizio;
  • viene meno l’integrazione aziendale per i primi tre mesi di congedi parentali.

Prima CGIL CISL e UIL, Faisa e UGL hanno convocato una forma di sciopero alquanto blanda (la settimana di autotutela), consistente nel rispetto scrupoloso delle norme di sicurezza da parte degli autisti che ha provocato il rallentamento di alcune linee, mentre il 5 dicembre si è tenuto lo sciopero convocato dall’RSU, controllata dai Cobas.
È in queste condizioni che si arriva ad oggi. Dal punto di vista di BusItalia, Firenze rimane al centro del tentativo di ottenere un contratto di secondo livello da estendere su tutte le aree urbane contese o potenzialmente contendibili. Dal punto di vista dei lavoratori, questa rimane una partita che richiede un livello di organizzazione e di coordinamento più avanzato rispetto a quello esistente. Come mostra il seguente video, però, la consapevolezza delle conseguenze della privatizzazione, delle soluzioni da adottare e della necessità che siano gli stessi lavoratori, insieme agli utenti, a determinare la gestione del servizio, si è fatta man mano strada, attraverso la lotta, tra i lavoratori e i loro delegati.


Note

1 ATAF non è stata sola in questo passaggio di consegne, basta un rapido controllo sulla rete per notare come il vento della privatizzazione soffi sulle principali aree metropolitane, che sono o saranno interessate dal medesimo processo. Se l’obiettivo politico degli nostri governi è quello di aumentare l’attrattività del paese nei confronti dei capitali privati, esso deve garantire buoni margini di accumulazione: la svendita dei monopoli naturali come il servizio idrico o il servizio di trasporto pubblico urbano si rendono passaggi obbligati. (torna su)

2 Nonostante le previsioni e le rassicurazioni della nuova Ataf gestioni, gli attuali soci hanno da poco deliberato la diminuzione del capitale sociale, cioè del capitale “di rischio” da cui si attinge automaticamente in caso di perdita. Ad oggi non possediamo ancora dati sull’ammontare esatto di tale perdita. (torna su)

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