[Roma] Intervista ai lavoratori del Call Center Capodarco

A tanti di noi sarà capitato di fare una telefonata per prenotare una visita o un esame in un ospedale pubblico. “Buongiorno devo prenotare per una gastroscopia” “Mi dispiace la lista è chiusa fino all’anno prossimo, deve richiamare”. E sempre più persone decidono di spendere qualcosa in più facendo l’esame privatamente perché al pubblico non c’è posto. Qualcuno fa dei sacrifici sui suoi magri stipendi, ad altri non sono rimasti da fare nemmeno quelli, ed aspetta.

Sono queste le telefonate che ricevono ogni giorno gli operatori del servizio Recup della Regione Lazio. Il call center che risponde al numero verde 80 33 33, uno dei due modi per prenotare prestazioni sanitarie negli ospedali pubblici, assieme agli sportelli del servizio Cup (Centro unico prenotazione). Come tanti lavoratori della sanità pubblica – addetti alle pulizie, infermieri, vigilantes, ausiliari (i cosiddetti “portantini”) - anche loro sono “lavoratori in appalto”, dipendenti di aziende private che svolgono servizi pubblici “esternalizzati”. Negli ultimi mesi sono un po’ in subbuglio: l’azienda per cui lavorano, la cooperativa Capodarco, è stata sottoposta ad amministrazione giudiziaria dopo che Maurizio Marotta, suo presidente storico, è finito nei processi di Mafia Capitale con una denuncia per turbativa d’asta. L’amministrazione “tecnica” è stata imposta per scongiurare il divieto alla cooperativa di partecipare a future gare d’appalto, come deciso dal prefetto a dicembre 2015 dopo l’iscrizione di Marotta nel registro degli indagati, e così evitare che le responsabilità penali dei suoi dirigenti ricadessero sui suoi 2000 lavoratori (dei quali 500 sono i lavoratori del call center Recup). Certo, se tale mossa fosse stata veramente fatta in difesa dei dipendenti, meglio sarebbe stata l’assunzione diretta da parte della regione (o dagli altri enti appaltanti), ma tale misura “socialisteggiante” stride con l’ideologia de “il privato funziona meglio” che impera in questo paese da trent’anni a questa parte, e con l’appetito di chi con gli appalti ci si compra gli yacht. Dal canto loro gli amministratori giudiziari ci hanno messo poco a fugare ogni dubbio sulla difesa degli interessi dei lavoratori: hanno imposto una pausa di mezz’ora (non pagata) all’interno dell’orario di lavoro (in genere di 6 h), istituito un nuovo sistema di turnazione per i part-time che non tiene più conto delle necessità dei dipendenti, rifiutato ogni confronto con i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali effettive. Soprattutto, programmano il prossimo spostamento dei Call-Center di Roma e Frosinone a Pomezia, con grandi disagi per la maggior parte dei lavoratori (molti dei quali disabili). Davanti a questi scenari, i lavoratori hanno scelto di mobilitarsi, dopo un primo sciopero l’11 ottobre annunciano nuove iniziative di lotta. Noi li abbiamo intervistati:

Prima di tutto ci potete spiegare come funziona il vostro lavoro?
Noi siamo quelli del servizio Recup, quelli che rispondono al 80 33 33, stiamo davanti a un computer, riceviamo le telefonate e vediamo sul terminale se ci sono posti liberi per la prestazione richiesta. Ce ne sono alcune dove è impossibile trovare un posto libero, ecografie, risonanze, gastroscopia, colonscopia… sono cose per cui prima di un anno non se ne parla. Lo stesso se rimani incinta, devi fare tutto a pagamento [da un privato, ndr] È molto duro dover dire a persone che hanno bisogno di un esame che non c’è posto, a volte parliamo con persone che stanno molto male, magari c’è disponibile un posto in un ospedale molto lontano da casa loro, e loro ci dicono che non possono accettare perché non c’è nessuno che li può accompagnare… per la maggior parte chiaramente sono anziani. I ritmi sono molto serrati - se ne accorge qualsiasi utente da quanto resta in attesa quando chiama – tra una telefonata e l’altra abbiamo 15 secondi di tempo, ed “in cuffia” passiamo 6 ore al giorno. Nonostante sia un lavoro che molti di noi fanno da più di dieci anni (alcuni da venti, visto che la Capodarco ha l’appalto del Recup dalla fine degli anni Novanta), e l’impegno che ci viene richiesto, lo stipendio più alto arriva a 1100€ al mese. E questo vale per chi ha il full time e tutti gli scatti di livello, mentre la maggior parte di noi è part-time dalle 20 ore in su.

Perché il trasferimento del call-center a Pomezia è particolarmente grave per voi?
Chiaramente andare a Pomezia è una difficoltà per tutti, i nostri stipendi non sono alti, ed andare a Pomezia per chi fa un part-time vuol dire comunque perdere la giornata e dover – per chi ce l’ha – prendere la macchina. Ma è una proposta irricevibile per tutti i nostri colleghi con disabilità fisiche e mentali. Infatti la Capodarco nasce con finalità di inserimento per persone a forte rischio di emarginazione sociale, e più del 40% dei dipendenti appartiene a queste categorie. Molti di loro vengono a lavoro grazie al servizio navette gratuito dell’Atac per i disabili, servizio che si ferma alle porte del comune di Roma… come pensano che queste persone possano arrivare a lavoro? Pensate che l’alternativa che stanno proponendo è il telelavoro. Ma come?! Queste persone lavorano soprattutto per uscire di casa, per costruire relazioni sociali… e la proposta è di farli lavorare da casa? Attaccati al telefono? Molti di loro si licenzieranno, ed in fondo è questo che vogliono.

Quali sono le vostre richieste?
Le richieste del Cobas Capodarco, di cui facciamo parte, sono:
1) Internalizzazione sia dei Servizi quanto del Personale che al momento lavora sugli appalti della Sanità della regione Lazio.
2) Soluzione dei problemi riguardati la chiusura delle sedi di Frosinone e Roma dei lavoratori Capodarco. Non siamo contrari all’ottimizzazione dei costi, ma pretendiamo soluzioni alternative che non causino gravi disagi ai lavoratori della commessa Recup, i quali tra l’altro percepiscono stipendi medi di circa 900€.
3) Equità sulla turnazione e orario lavorativo applicando criteri che siano a norma di legge.
4) Seria regolamentazione del telelavoro come opzione lavorativa.

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