Almaviva, cos'è successo? Lo spieghiamo in una grafica

Almaviva è un’azienda di call center cresciuta su appalti e commesse privati e, soprattutto, pubblici. Nella sua storia ha intascato milioni di euro di sovvenzioni statali: da quelle per le assunzioni nel Sud e quelle per le regolarizzazioni dei precari, strappate al Governo dopo aver per anni illegalmente assunto collaboratori a progetto, e infine spostando commesse da città a città per utilizzare Cassa Integrazione e la Mobilità.

Dal 30 aprile 2013 usufruisce dei Contratti di Solidarietà (CdS) a livello nazionale, con scadenza prevista 31 maggio 2016.

A Marzo 2016 annucia 3000 esuberi nelle sedi di Roma, Napoli e Palermo. L’obiettivo è quello di usare la minaccia dei licenziamenti per ottenere altri soldi pubblici e tagli del salario, anche perché in questi siti c’è la manodopera più anziana e con più diritti.
Cominciano le mobilitazioni. Il 13 Aprile è sciopero nazionale.
I sindacati giungono a un accordo: i CdS diminuiscono nelle sedi dove NON sono stati dichiarati gli esuberi, mentre resta uguale quella su Roma, Napoli e Palermo. Inoltre viene programmata una volta ogni 15 giorni, anziché una volta al mese, portando a massima flessibilità.
Il 5 Maggio l’accordo viene sottoposto a referendum e viene BOCCIATO dal 90% dei lavoratori! Nonostante questo e il proseguo delle mobilitazioni, il 31 Maggio i sindacati confederali firmano un accordo sostanzialmente uguale a quello bocciato.

Ottobre 2016 l’azienda si rimangia tutto: vuole chiudere gli stabilimenti di Roma e Napoli e chiede il trasferimento a Rende di 300 lavoratori di Palermo.
Per scongiurare i licenziamenti pretende il taglio del costo del lavoro e il controllo individuale.
Partono le mobilitazioni, che per due mesi porteranno centinaia di lavotatori sotto alla sede del Ministero dello Sviluppo Economico. Il 19 Ottobre viene occupata la sede di Via Marcellini e in contemporanea a Roma molti dipendenti “posano le cuffie”.
La trattativa è in stallo: l’azienda vuole chiudere o spremere i lavoratori, i sindacati dichiarano questi punti non negoziabili, il Governo non fa niente.
Il 21 Dicembre, quando la procedura sta per concludersi, il Governo propone di prorogarla fino a Marzo, mettendo nel frattempo i soldi per la Cassa Integrazione. Intanto i sindacati potranno decidere di accettare il taglio del costo del lavoro e il controllo individuale.
La prima risposta è negativa. Il Governo allora fa una grave forzatura: scorpora la trattativa e fa esprimere separatamente Napoli e Roma. Le RSU di Napoli alla fine accettano con un solo voto contrario. Quelle di Roma chiedono di potersi consultare con i lavoratori. Non gli viene permesso. Per questo rifiutano in blocco l’accordo, rispettando il mandato delle assemblee e delle mobilitazioni portate avanti dai lavoratori nei due mesi precedenti.

Contro le RSU di Roma si scatena una campagna mediatica che scarica su di loro le colpe dei licenziamenti volute dall’azienda. Le dirigenze sindacali allora fanno marcia indietro: la CISL comincia a raccogliere le firme di chi vorrebbe accettare l’accordo, la CGIL indice un referendum. Il 28 Dicembre si svolge il referendum: vince il Si, ma, nonostante il ricatto, il 44% dei votanti conferma il NO delle RSU.
L’azienda però non è interessata e mascherandosi dietro i formalismi giuridici procede con la chiusura dello stabilimento. 1666 persone vengono licenziate.

Rete Camere Popolari del Lavoro