Sfruttamento e lotte nelle campagne italiane: un bilancio parziale e alcune prospettive di rilancio

Tra una settimana, il 24 – 25 – 26 Ottobre, si terrà a Pesaro l'incontro nazionale della rete Genuino Clandestino. Anche in questa occasione, nella giornata dedicata ai tavoli tematici, si avrà la possibilità di confrontarsi, riflettere e provare a trovare linee d'azione contro le condizioni di sfruttamento generalizzato e i meccanismi diabolici di intermediazione di manodopera che caratterizzano le nostre campagne e non solo.

L’ultimo incontro tenutosi nella tre giorni di Genuino Clandestino ha permesso, infatti, un confronto tra i/le diversi/e compagni/e che in varie forme e da diversi anni stanno facendo un intervento politico contro le condizioni di sfruttamento estremo che vigono nel settore agricolo e zootecnico italiano (da Nord a Sud) e di cui sono vittime in particolare i/le braccianti immigrati/e. Un intervento che prova a superare la logica meramente assistenziale che mette una pezza alle situazioni di estremo degrado solo per lasciar sì che queste si riproducano in altre forme.

Perché questa riflessione possa continuare e possa coinvolgere sempre più compagni e compagne che vi si affaccerebbero per la prima volta, abbiamo provato a ricostruire i passaggi essenziali delle mobilitazioni dei braccianti agricoli e la natura del sistema che li sfrutta, raccogliendo e indicando molto del materiale più rilevante prodotto sul tema.

In conclusione indichiamo i nodi su cui riteniamo si debba concentrare la discussione e il modo in cui proveremo a contribuire per rafforzare l’intervento politico su questo importante fronte.

La filiera dello sfruttamento

Il settore alimentare ha un ruolo tutt’altro che trascurabile nell’economia del Paese: secondo le recenti stime di Nomisma il processo di produzione e distribuzione di prodotti agroalimentari coinvolge una rilevante porzione dell’economia italiana, rappresentandone il 13,2% degli occupati (3,3 milioni di lavoratori) e l’8,7% del PIL (119 miliardi di euro, a fronte di un peso del 2% di agricoltura silvicoltura e pesca in senso stretto). Il settore agricolo e zootecnico in senso stretto impiega circa 400 mila lavoratori/ci, per la maggior parte con mansione operaia, in cui dilagano contratti a tempo determinato di tipo stagionale. Di questi/e, 100 mila sarebbero stranieri/e secondo i censimenti ufficiali. Le stime che però tengono conto dell’impiego di manodopera in nero valutano un numero almeno doppio di essi (l’ultimo rapporto INEA ne stima 269000 solo nell’agricoltura). I numeri risultano comunque falsati anche dal fenomeno dei ‘falsi braccianti’, attraverso cui, truffando la previdenza pubblica, si garantiscono indennità varie, maternità, ecc., a chi risulta bracciante senza esserlo, figurando però così nei dati statistici. Ad ogni modo, nel 2012 c’è stato uno ‘storico’ superamento della percentuale di lavoro dipendente (50,4%) su quello indipendente. Questo sembra confermare un trend che va verso una maggiore concentrazione delle imprese, rilevato in un recente studio sull’evoluzione delle aziende agricole dal ’61 al 2010 secondo cui negli anni novanta il numero delle aziende agricole si è fortemente ridimensionato (-21%) per poi crollare nel nuovo millennio (-32%). Trattasi di una riduzione che non ha precedenti in tutti i decenni passati e che ha visto il dimezzarsi delle micro aziende, in concomitanza con un vero e proprio processo di formazione di medie e grandi imprese. Dall’altra parte si rileva però una considerevole riduzione delle aziende che utilizzano braccianti, che sono passate dal 34% della superficie agricola totale nel 1961 al 24% nel 2010, mentre il loro numero è sceso a poco più di 66 mila unità nel 2010. Questo è probabilmente legato però alla pesante sottovalutazione dell’utilizzazione della manodopera extra-familiare (spesso in nero) nelle aziende a conduzione.

Come ampiamente documentato, tra gli altri, dai rapporti di Medici senza Frontiere, le condizioni di lavoro ed abitative dei/le braccianti immigrati/e sono gravissime e di estremo degrado. A permettere un simile livello di sfruttamento un ruolo fondamentale lo esercitano le leggi sull’immigrazione che, attraverso il ricatto del permesso di soggiorno e la produzione di un esercito di clandestini, mantengono questi/e lavoratori/ci in una condizioni di vulnerabilità permanente e totalmente estranei a qualsiasi meccanismo di tutela. Su questa situazione quindi si innesta il complesso criminale dimostrato dalle numerose inchieste della magistratura sul condizionamento operato dalla criminalità organizzata a diversi livelli della filiera agroalimentare (dalla produzione la mercato del lavoro per arrivare alla trasformazione e commercializzazione). Un complesso anche clientelare che, attraverso ad esempio le già citate truffe dei ‘falsi braccianti’, mira alla costruzione di un sistema diffuso di consenso e legittimità tra la popolazione locale. I piccoli proprietari poi, strozzati tra le maglie dei grandi fornitori di materie prime e mezzi di produzione ‘a monte’ e la GDO ‘a valle’ (nonché la mafia nel mezzo), si fanno spesso a loro volta strozzini, scaricando il costo di questo sistema sulle spalle dei/le braccianti costretti a tirare avanti con salari ridicoli (25-30 euro al giorno per anche 12 ore di lavoro) a loro volta decurtati in cambio del ‘servizio’ reso dai caporali. Quello del caporalato è poi un fenomeno che riguarda moltissime di queste aziende e che permette al datore di lavoro di non interfacciarsi con la manodopera, che viene recuperata e raccolta dai caporali e poi ‘smistata’ dove serve. Questo avviene spesso su base etnica o nazionale, contribuendo a quelle divisioni interne alla forza-lavoro che aiutano a loro volta a controllarla e mantenerla in questo stato di sfruttamento ed isolamento.

Questa situazione si protrae da più di venti anni, pur in diverse forme e con numeri che sono cresciuti notevolmente, ed è conosciuta all’opinione pubblica almeno dall’89 quando avvenne il famigerato omicidio di Jerry Maslo, rifugiato sudafricano che lavorava come bracciante nel casertano. Come rilevano i compagni Sacchetto e Perrotta in “Sulla pelle viva” (DeriveApprodi, 2011), è però a partire dalla metà degli anni 2000 che sembra farsi più attento lo sguardo dei media sul fenomeno e si intravede una certa conflittualità da parte dei braccianti impiegati nel settore. Oltre alle citate inchieste di MSF ed altre pubblicazioni, nel 2006 la Cgil organizza una manifestazione di protesta a Foggia, a cui partecipano anche alcuni braccianti marocchini del ghetto di San Nicola Varco (Piana del Sele), che avevano scioperato e manifestato a Salerno poco tempo prima sostenuti dalla locale Flai-Cgil. Seguendo sempre la ricostruzione dei compagni, è però negli anni successivi che le proteste diventano più frequenti, in particolare con la rivolta di Rosarno del 2010 (che fu preceduta quasi due anni prima da una manifestazione sempre a Rosarno del dicembre 2008), e poi lo “sciopero delle rotonde” organizzato lo stesso anno dal centro sociale ex-Canapificio di Caserta a Castelvolturno e nei comuni limitrofi, dove già nel settembre del 2008 si era registrata la protesta seguita all’uccisione di sei africani da parte di un gruppo di fuoco camorrista. Aumentano anche i documentari e le inchieste, anche giudiziarie, mentre la Flai attiva due campagne (“Oro rosso” e “Stop al caporalato”). La situazione materiale però non cambia e a seguire ed assistere i braccianti sono per lo più associazioni di volontariato di varia natura, variamente legate (od ostacolate) alle istituzioni locali ed ai sindacati. Associazioni che spesso si limitano a sostituire i ghetti fatiscenti auto-costruiti dei braccianti con tendopoli che perpetuano la marginalizzazione ed il controllo della forza-lavoro, in continuità con l’apparato di “accoglienza”, controllo ed espulsione che lo Stato opera attraverso i CIE e CARA (la cui geografia nel meridione è praticamente sovrapponibile a quella dei campi di raccolta).


Lotte piccole ma importanti

In questo quadro ci sembra estremamente significativo quanto accaduto a Nardò (Lecce) nell’estate 2011, in quello che è stato definito il primo sciopero autorganizzato dei braccianti migranti. Si è assistito infatti ad un protagonismo diretto ed assoluto dei lavoratori stessi, in grado di andare al di là delle divisioni nazionali ed etniche abilmente utilizzate fino a quel momento da caporali e padroni. Altrettanto importante è poi il fatto che questa volta si è messo al centro di un’azione collettiva una rivendicazione concreta (aumento del prezzo a cassone, abolizione del sistema del caporalato, «veri» contratti di lavoro, apertura di un ufficio di collocamento nel campo) da ottenere attraverso la forza di chi per quanto sostituibile rimane comunque indispensabile e che quindi, ben coordinato e cosciente di questo suo valore, può portare al blocco della produzione e dei profitti. Lo sciopero ha attirato su di sé una notevole attenzione mediatica ed una grande solidarietà, attirando l’attenzione di giornalisti, politici, sindacalisti, coinvolgendo gli artisti che si esibivano nei festival estivi ed anche realtà di lotta sul lavoro come nel caso dei lavoratori FIOM della Fincantieri di Ancona. Nel far questo un contributo determinante è stato dato dai compagni e le compagne delle Brigate di Solidarietà Attiva, che hanno influenzato anche la nascita stessa dello sciopero grazie al loro lavoro alla ex-Masseria Boncuri, struttura nata nel 2010 e gestita insieme all’associazione Finis Terrae al fine di garantire accoglienza dignitosa ai lavoratori stagionali che nei venti anni precedenti erano costretti a vivere in stabili abbandonati, sui campi e in luoghi di fortuna.

Lo sciopero si è svolto in condizioni difficilissime, eppure è stato in grado di tenere per due settimane. Per quanto i risultati concreti siano stati alla fine pochi, ha avuto un profondo impatto istituzionale -piano su cui d’altronde ha finito per concentrarsi gran parte dell’azione-, tanto da costringere all’approvazione affrettata di una legge che covava da dieci anni e che ha reso il caporalato un reato penale, che poi coincideva con la proposta di legge della campagna “Stop al caporalato” della FLAI-CGIL. Tutto ciò anche in virtù dell’attivo coinvolgimento della FLAI stessa, che ha seguito tutto il procedere dello sciopero e le trattative istituzionali avvenute in comune, regione e provincia, per lo più boicottate però dalle aziende e dalle associazioni datoriali.

Già nei giorni dello sciopero, come si può leggere anche nella cronologia in appendice al già citato “Sulla Pelle Viva”, si cominciò a discutere su come estendere la protesta ad altre aree di raccolta, come a Foggia, Boreano (PZ) e Rosarno. In questo senso vengono anche organizzata assemblee sia a Nardò che a Palazzo San Gervasio (PZ) per discute già di come dare seguito a mobilitazioni come questa negli altri territori. Assemblee che vedono la presenza delle varie associazioni che si occupano del lavoro dei migranti in agricoltura in vari territori dell’Italia meridionale, ma anche associazioni contadine, centri sociali, e una rappresentanza della Cgil, con lo scopo di costruire una rete per dare maggiore forza alle lotte dei migranti in agricoltura. Una delegazione degli scioperanti si reca anche nel ghetto di Rignano Garganico, una baraccopoli nel foggiano abitata da centinaia di braccianti stagionali africani.

L’esigenza di generalizzare la lotta si scontra inevitabilmente con le sue specificità, che non la rendono immediatamente riproducibile in luoghi più ampi e dispersivi come ad esempio la Capitanata, in cui sono presenti anche caporali rumeni che portano le loro squadre di braccianti (che spesso non conoscono neanche l’italiano) direttamente dalla Romania e che finita la raccolta ritornano a casa. O come Boreano (PZ) dove i braccianti sono isolati nelle campagne e il crumiraggio è più agevole potendo contare sui tanti «ghetti» del foggiano o sui lavoratori bulgari e rumeni che vivono nei paesi e che sarebbe più difficile coinvolgere in una mobilitazione. Lo sciopero di Nardó del 2011 rimane quindi un’episodio isolato: già l’anno successivo la situazione ritorna alla sua miserevole normalità, il comune decide di non aprire la Masseria Boncuri di cui era il principale finanziatore (anche se BSA e Finis Terrae avevano lottato perché fossero le aziende a pagare) mentre le organizzazioni padronali dichiarano lo stato di crisi (date scarse le necessità di manodopera, sarebbe inutile riaprire la Masseria). Intanto sindacati e padroni firmano un nuovo accordo provinciale di lavoro che legalizza il lavoro a cottimo. I lavoratori rimangono così isolati e dispersi per le campagne e non si ripete la magia dell’anno precedente.

Intanto però cresce l’intervento politico sul piano nazionale: grazie anche alla spinta di Nardò si struttura sempre più la Rete Campagne in Lotta, nata subito dopo la rivolta di Rosarno al fine di incrociare i percorsi di lotta di produttori, contadini e braccianti, “condividendo le diverse istanze rivendicative che legano lo sfruttamento del lavoro agricolo bracciantile al meccanismo di ricatto che la grande distribuzione esercita nei confronti dei piccoli produttori ed in ultimo anche sui consumatori”.

Si apre un’intervento nel ‘gran ghetto’ di Rignano, mentre la lotta comincia ad estendersi anche a Nord: a Castelnuovo Scrivia (AL) lavoratrici e lavoratori di origine marocchina vengono licenziati in blocco da un’azienda agricola che li vorrebbe sostituire con altri di altra nazionalità nel più puro stile della guerra tra poveri. Iniziano subito proteste e blocchi, che vedono l’immediato supporto delle BSA ed ottengono la sponda sindacale della CGIL. Da quando la lotta iniziò nell’estate 2012 ad oggi, prosegue un presidio permanente, vittima di numerosi attacchi repressivi, da ultimo la recente denuncia per danno all’immagine aziendale ai due compagni autori del documentario “Schiavi Mai” sulla vicenda.

Nelle vicinanze, a Saluzzo in provincia di Cuneo, le BSA (all’interno della Rete Campagne in Lotta) cominciano un intervento all’interno di un’altra baraccopoli, la cosiddetta ‘Guntanamò’, dove vivono centinaia dei braccianti che arricchiscono le aziende locali e la grande distribuzione. Quest’anno è stata sgomberata e sostituita da una grande tendopoli e dei piccoli accampamenti finanziati e gestiti dalla Coldiretti e della Caritas, in una forma che rende molto difficile anche solo l’intervento sindacale, come quello che i compagni portano avanti insieme alla CUB. A partire da queste due esperienze si è costituito il Coordinamento Lavoro Bracciantile Piemontese, con lo scopo di di lottare contro le “condizione che vivono i braccianti ed i disoccupati alla ricerca di lavoro nelle nostre campagne – stagionali e stanziali, migranti e autoctoni. Condizione che ha radici storiche ed a cui oggi concorrono sia il vincolo padronato multinazionale/GDO, sia le politiche nazionali e locali”. A completare il quadro c’e l’intervento dell’Osservatorio Migranti della Basilicata nella provincia di Potenza, sempre all’interno della Rete Campagne in Lotta.


La difficile e necessaria organizzazione

L’intervento politico in questi contesti risente chiaramente di molte difficoltà: in quasi ogni luogo in cui imperversano condizioni di sfruttamento come quelle citate è presente una rete di interessi politico-clientelari che le nasconde o le legittima. Non è inoltre rara, come detto, la presenza della criminalità organizzata, braccio armato dell’imprenditoria locale ed emanazione più o meno cosciente di interessi ben più ampi. Infine, è da considerare anche il ruolo giocato dal mondo dell’associazionismo ‘assistenzialista’ nel mantenere in una condizione di passività politica i lavoratori e le lavoratrici la cui miseria viene alleviata solo nei suoi aspetti più eclatanti. Questo tipo di intervento, per lo più finanziato e gestito da quelle stesse istituzioni interessate al mantenimento dello status quo (la politica locale, ma anche la Coldiretti), assolve una funzione oggettivamente conservatrice; al di là cioè delle intenzioni soggettive di chi anche generosamente ne partecipa, si limita a farsi carico dei costi di riproduzione di una forza-lavoro su cui così pende anche il ricatto di perdere quel poco che gli viene ‘amorevolmente’ concesso nel caso cominciasse a ribellarsi.

Il rischio d’interventi circoscritti -e spesso sporadici, dato anche il carattere stagionale del fenomeno-, è quindi quello di limitarsi a scalfire il muro di gomma che protegge e perpetua lo sfruttamento, rischiando inoltre ritorsioni sulla pelle degli stessi lavoratori che vorremmo difendere e sostenere. Dall’altra parte, non correre nemmeno questo rischio e adeguarsi alle situazioni locali, significherebbe mantenere nell’isolamento gli elementi più coscienti ed avanzati che così spesso si sono espressi tra i braccianti migranti. Così, mentre i piccoli produttori esercitano la propria risicata ‘indipendenza’ sulle spalle dei salariati e provano a resistere alla crisi attraverso l’associazionismo corporativo (strappando finanziamenti pubblici e comunitari, agevolazioni fiscali, ecc.), il rischio vero è che il grosso dell’intervento in difesa dell’interesse dei braccianti su scala nazionale si concentri solo sugli aspetti più aberranti, come il caporalato o la criminalità organizzata. Questo é stato ad esempio l’esito reale dello sciopero di Nardò, con la già citata legge che ha reso un reato penale questa forma d’intermediazione di manodopera, nonostante uno dei suoi leader, diventato adesso funzionario della FLAI, sostiene che non “possa risolvere il problema perché non colpisce i veri sfruttatori. I responsabili non sono i caporali ma i datori di lavoro. Oggi arresti un caporale e domani ne arriva un altro”.

La linea della FLAI rimane comunque in generale orientata primariamente a “potenziare filiere capaci di puntare su qualità e legalità”, come si può leggere nella sintesi del secondo rapporto del loro centro studi, intitolato non a caso “Agromafie e Caporalato”. Benché si riconosca che sia “il piano sociale ed economico” il “terreno su cui le mafie continuano ad avere consenso”, gli strumenti che si propone di mettere in campo sembrano ben difficilmente in grado di intaccare il complesso di interessi di cui le organizzazioni criminali (spesso difficilmente distinguibili da quelle legali) sono espressione ai diversi livelli della filiera, partendo da quello del controllo della manodopera. Come scrive bene il compagno Paolo Scandolin in “La filiera agroalimentare: condizioni di lavoro e lotte dei lavoratori” (Clony Editing, 2012), compito del caporale “è solo quello di far rispettare gli standard richiesti dagli anelli superiori della catena, assicurare una fornitura costante di manodopera a basso costo e flessibile alle esigenze del mercato: rappresenta una semplice pedina del tutto funzionale alla logica del capitale, un piccolo anello nella lunga ‘catena del valore’ che va dai campi fino alle poltrone dei manager delle multinazionali”.

In questo senso appare destinata a rimanere lettera morta anche l’eventuale approvazione della proposta di Legge recentemente presentata insieme a CISL e UIL al fine di promuovere “l’incontro domanda – offerta e realizzare il contrasto al lavoro sommerso e ad ogni forma di illegalità” attraverso una rete informatica “istituita ad opera delle Organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori in agricoltura comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e firmatarie dei contratti collettivi, d’intesa con l’INPS”. Come sostiene il compagno Mimmo Perrotta nella sua recente ricostruzione del fenomeno del caporalato (“Vecchi e nuovi mediatori”, La Meridiana, 1 - 2014), questo tipo di leggi “quasi sempre sanciscono conquiste già ottenute o sconfitte subite dal movimento bracciantile nei luoghi di maggiore radicamento; al contempo, esse hanno effetti concreti soltanto se e quando le leghe hanno la forza (o i governi hanno l’intenzione) di imporne il rispetto, altrimenti restano inapplicate”. Misure quindi facilmente eludibili e che rischiano di essere più che altro funzionali al proliferare di un apparato burocratico-sindacale in cui figurano soggetti che raramente hanno sostenuto, e difficilmente sono pronti a sostenere, delle lotte che sono spesso fanno valere le proprio ragioni confliggendo con la tanto invocata “legalità”, ma che non per questo risultano meno legittime.

In questo senso, una rete nazionale di supporto alle lotte dei braccianti può rappresentare ancora un importante strumento in grado di intaccare quell’insieme di interessi economici, sociali e politici che perpetuano l’egemonia di un capitale che ha il suo braccio armato nelle organizzazioni criminali ed il grosso dei suoi profitti nelle multinazionali a monte e a valle della filiera. Le lotte dei facchini (e delle facchine, ricordiamo la YOOX!) hanno dimostrato quanto la solidarietà diffusa, la condivisione delle informazioni, la pubblicizzazione delle notizie, possano contribuire a rompere l’isolamento e rafforzare i/le lavoratori/ci che si battono con coraggio contro un sistema di sfruttamento che mette insieme mafia, Stato, sindacati complici e giornalisti prezzolati.

Si parla di un settore che spesso rappresenta un anello fondamentale nella stessa catena del valore agroindustriale che appunto “parte dalla raccolta nelle campagne e dalle industrie manifatturiere e di trasformazione, passa per la logistica dei grandi magazzini salendo sui camion dei trasportatori e si conclude direttamente negli scaffali di Gigante, Esselunga, Coop, Carrefour, ma anche in quelli dell'Ikea”, come sostengono giustamente le Brigate di Solidarietà Attiva. Già ci sono stati episodi di solidarietà reciproca, come quella ai facchini del CAAT di Torino e momenti importanti di confronto, come alcune assemblee promosse da diversi collettivi a Roma, per non parlare del fatto che poi alcuni dei braccianti possano essere stati facchini ed aver partecipato ad alcune delle lotte della logistica. Se è vero che a scatenare lo sciopero di Nardò contribuì anche la partecipazione di alcuni dei lavoratori coinvolti alla lotta alla Tecnova di qualche tempo prima, possiamo solo immaginare cosa possa succedere in questo caso.

In una fase di crisi come questa, in cui sopraggiungono costantemente nuovi elementi in grado di destabilizzare un quadro apparentemente monolitico come quello dello sfruttamento dei braccianti agricoli – pensiamo ad esempio alla chiusura della frontiera russa in virtù della crisi Ucraina che ha fatto tornare indietro molta della merce agricola prodotta in Italia, o alle difficoltà emerse nel ridefinire le linee della Politica Agricola Comunitaria –, dobbiamo prepararci all’inaspettato. Tanto più che l’occupazione agricola è in lieve crescita, e non solo per quanto riguarda gli immigrati, ma anche sempre più per gli autoctoni.

Come collettivo che si occupa d’inchiesta e connessione del mondo del lavoro d’ora in poi proveremo a dare il nostro contributo alle lotte dei braccianti e all’impegno dei militanti che li supportano innanzitutto facendo in modo che le informazioni circolino adeguatamente e le notizie rilevanti siano rese il più possibile pubbliche, con la speranza di rompere sempre più l’insopportabile isolamento in cui è avvolto il loro sfruttamento. Auspichiamo che questo possa aiutare anche a coinvolgere sempre più militanti e che questi possano essere sempre meglio preparati quando si accingono a intervenire anche nel breve periodo di una stagione.

Altrettanto importante sarebbe a nostro avviso rafforzare gli strumenti di un’analisi della filiera agroalimentare e delle forme d’intervento politico e sindacale che potrebbero essere messe in atto a questa altezza, con l’obiettivo di lungo termine di abbozzare una vera e propria piattaforma rivendicativa per i braccianti agricoli, che rafforzi e integri le esistenti, che sappia anche articolarsi con le istanze degli elementi più avanzati e più sofferenti tra i piccoli produttori.

Ma qui stiamo sognando. Intanto sicuramente continueremo le nostre ricerche sulle trasformazioni e le tendenze del settore agricolo Italiano nella crisi mondiale e cercheremo di favorire l’espandersi del raggio di azione del movimento in territori ancora poco esplorati come l’Agro Pontino, la Piana del Sele, il Veneto e il Trentino.

Non è che l’inizio.

Rete Camere Popolari del Lavoro