Dal caporalato illegale a quello legale

Dormivano in stalle e porcili, mentre di giorno gli imprenditori agricoli della piana di Sibari li sfruttavano fino al midollo nei loro campi, con paghe da fame e orari di lavoro massacranti. È soltanto una, né la prima né l'ultima, delle tante storie di sfruttamento, che quando giunge al disonore delle cronache ci si affretta ad ammantare di eccezionalità: è colpa delle agromafie che controllano pezzi della nostra agricoltura, è colpa dei caporali malavitosi e criminali, è colpa di qualche imprenditore senza scrupoli.


 Meno di una settimana fa viene approvato in Senato il ddl 2217, che tecnicamente si intitola “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura”, ma che tutti hanno rinominato 'legge contro il caporalato', perché nei fatti questo è: una legge che, esattamente come la precedente, è rivolta essenzialmente a punire i caporali, inasprendo le pene contro questi, che ci vogliono far credere siano all'origine di tutti i mali. È una retorica che conviene, farci credere che questo schifo, lo sfruttamento, non sia la regola, piuttosto un'eccezione, il risultato di una qualche attività malavitosa portata avanti da spregevoli personaggi. In questo modo si circoscrive il problema a poche mele marce, non si generalizza la discussione, si evita l'incombenza di interrogarsi su un intero sistema produttivo. C'è chi direbbe che questa volta però la legge tenta di colpire chi da questo meccanismo poi ne trae il vero vantaggio in termini di profitti, i padroni. È vero: con la riscrittura dell'articolo 603 bis del codice penale si attribuisce una responsabilità anche agli imprenditori che sottopongono i lavoratori a condizioni di sfruttamento. Un passaggio importante, perché la relazione di sfruttamento è quella tra lavoratore e datore di lavoro, il caporale solitamente non è responsabile delle condizioni lavorative generali. Ma in questo paese sembra non si riesca a fare un passo in avanti senza aver regalato prima qualcosa alla classe che ci sfrutta, facendocene fare quindi dieci di passi indietro. Infatti, mentre si sono dovuti attendere 5 lunghi anni per estendere la responsabilità a chi ci fa davvero i soldi sfruttando, il Ministro dell'Agro-alimentare, così ora è stato ribattezzato, e suo seguito, sembrano aver dato immediato seguito alle richieste di padroni e Agenzie del Lavoro, che, sapendo perfettamente quanto sia profittevole per loro il sistema del caporalato, quest'inverno, durante un forum tenuto presso Palazzo Chigi a Roma, “Attiviamo Lavoro – Le potenzialità del lavoro in somministrazione nel settore dell'agricoltura”, a gran voce hanno, in sostanza, richiesto la legalizzazione della pratica di intermediazione in agricoltura. Così accade che, nella nuova legge contro il caporalato, si trova anche un importante integrazione alla misura relativa alla Rete del Lavoro Agricolo di Qualità. Tale Rete nasce a settembre dello scorso anno e rappresenta sostanzialmente un sistema pubblico di certificazione etica del lavoro: le imprese che chiedono di accreditarsi presso tale circuito, e che devono presentare alcuni requisiti per farlo, ricevono in cambio un bollino etico con cui possono marchiare i loro prodotti. Il nuovo comma 1-bis va ad apportare una sottile ma insidiosa modifica alla Rete del Lavoro Agricolo di Qualità, a cui da ora possono aderire anche, si legge, “le agenzie per il lavoro […] e gli altri soggetti autorizzati all'attività di intermediazione [...]”. Vi può sembrar poco, ma intanto così si inizia ad aprire le porte ai desideri famelici dei padroni che nel caporalato ci vivono e ci sguazzano. Così forse ora le aziende “buone” possono davvero far finta di esserlo un po' di più, almeno sulla carta, e vantare finalmente una parvenza di legalità.

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